Storie di gente comune al tempo del Covid – 1 / La mia amica Elena

(Franco Genzale) – È quasi un anno che conviviamo con il Covid. Ci hanno appena detto, confusamente come al solito, che non è affatto finita, che è molto probabile la terza ondata, che non dobbiamo abbassare la guardia, che dobbiamo avere pazienza. Ma, grazie a Dio, ci hanno anche detto che abbiamo appena contato il primo milione di vaccinazioni, che siamo tra i più veloci in Europa sulla strada della immunizzazione, che dobbiamo guardare con fiducia al futuro. Ed è ciò che la stragrande maggioranza di noi è intenzionata a fare.
Intanto, di certo c’è il passato di un anno ed ogni giorno c’è un presente che diventa passato. Un mese fa, ho chiesto alla bravissima collega giornalista di origini irpine, Anna Carmen Lo Calzo — che vive a Milano e che spesso avete letto in questo spazio — di cercare e scrivere storie di gente comune al tempo del Covid, poco importa il luogo in cui queste persone si svegliano, si muovono, esistono: le storie della gente sono interessanti sempre, e sempre ci arricchiscono di umanità.
Da oggi, ogni domenica, leggerete in questo spazio le storie trovate e raccontate dalla nostra Anna, che ringrazio per il lavoro eccellente che ci consegna. Buona lettura).

 

– di Anna Carmen Lo Calzo –

Il “tempo del Covid” ha trasformato il tempo assoluto e gli spazi indefiniti in tempi obbligati, distanze limitate, lontananze, solitudini. Nonostante ci si possa sforzare di rimanere attaccati alla positività e all’accettazione della pandemia, sta diventando difficile convivere ogni giorno con le rinunce, le mancanze, le speranze e con l’immaginazione che non si alterna più alla vita reale. C’è aria di rassegnazione a volte superficiale, a volte inquieta, a volte cinica e rabbiosa, a volte passiva. C’è un grande senso di smarrimento e l’impossibilità di progettualità sta creando disagi in ogni ambito della socializzazione e delle attività umane. Osservo, ascolto, mi confronto e mi domando se, nonostante tutto, esiste un modo per continuare a credere che tutto ciò avrà una fine.

Nel frattempo, decido di sfidare il Covid (e non solo) e, protetta da doppia mascherina, raggiungo una cara amica a casa sua. Elena mi accoglie insieme al suo cane, essere privilegiato in quanto animale non attaccabile dal maledetto virus. Non la vedevo da mesi perché non mi piacciono le videochiamate, ma so tutto di lei. Finalmente i suoi occhi, ancora più grandi e più intensi rispetto a come li ricordavo, mi parlano sfidando quella mascherina che nasconde una parte delle nostre anime. La pandemia ci tiene in pugno e ci tiene lontani fisicamente, ma non ci impedisce di trasferirci emozioni e stati d’animo, sempre e comunque. Prima del Covid, Elena aveva un compagno e una settimana lavorativa che finiva con l’entusiasmo di prendere un treno che la portava da lui, nella campagna piemontese del vino e del benessere. Una vita scandita da tempi poco imprevedibili, una quotidianità fatta di lavoro, di abitudini immutabili da anni. Perché Elena, 52 anni, da 15 anni era l’account di una nota agenzia di comunicazione. Lavorava 10 ore al giorno, andava in palestra, pagava le bollette, le rate del mutuo, l’abbonamento dell’estetista e quello di Trenitalia. Una milanese cresciuta a suon di sacrifici anni ’60 dei genitori, una donna “finita” nelle sue piccole grandi certezze. Il senso di tutto questo? La conquista di una vita serena, senza adrenalina, perché Elena non ne ha mai avuto bisogno. “La libertà non va sempre di pari asso con il nuovo, con il cambiamento, con l’imprevisto”, mi ha sempre detto. Forse per ricordarmi quanto siamo diverse.

Elena aveva un lavoro ed un compagno prima del Covid. Il lavoro se ne è andato e non le ha dato nemmeno l’ebbrezza della modalità “smart” perché la società con la quale collaborava ha dato spazio a nuovi progetti nei quali lei non è più stata coinvolta. Il tempo del Covid è il tempo dei numeri e dei conteggi. Così come nella prima ondata gli anestesisti talvolta hanno drammaticamente fatto scelte in base all’età per decidere in pochi minuti chi curare e chi lasciar andare, così come ogni giorno contiamo contagi e decessi, i numeri del nostro tempo che passa accentuano la spietata selezione basata sulle candeline soffiate nei luoghi di lavoro. Ma Elena ha deciso di reagire e questo le ha procurato un posto come ufficio stampa di una nota clinica milanese che, come tante altre strutture sanitarie, in questo momento è protagonista del film surreale che stiamo vivendo.

Ma il virus maledetto non si accontenta. Lo scorso novembre Elena ha dovuto cambiare l’abitudine del treno delle 19.05 per raggiungere il suo compagno Alberto di 67 anni, dati i nuovi impegni di lavoro. Era proprio venerdì, ma erano le 5 del mattino quando il suo cellulare ha squillato per metterla in comunicazione con il pronto soccorso di un ospedale. Una voce femminile che sostituiva la voce di Alberto le ha detto: “Il suo compagno è qui, ha la febbre alta, stiamo per fargli un tampone”.

Due settimane prima Elena e Alberto avevano bevuto insieme un calice di rosso d’annata per celebrare semplicemente la felicità di rivedersi, come ogni venerdì, a casa, in campagna, con il cane. La pandemia non aveva interrotto la loro semplice ma intensa “vita scontata”. Ma il virus non fa sconti, Alberto se ne è andato ed Elena ogni sera abbraccia il suo cane e augura la buona notte a tutti coloro che stanno lottando per la vita contro il virus maledetto.

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