In riva d’Acheronte (… guai a voi, anime prave…)

(Franco Genzale) – Devo un ringraziamento pubblico al magistrato in pensione Professor Gabriele Meoli, che non oso definire “Collaboratore” (della sezione Cultura di Irpinia Tv e del mio Blog) perché sarebbe imperdonabilmente riduttivo. Gabriele – mi permetto di chiamarlo per nome in quanto da tempo mi onoro della sua amicizia – è un Maestro. E i Maestri – al di là dei ruoli che hanno in un organo di informazione – non “collaborano”, bensì “insegnano”: con la loro fonte inesauribile di Sapere, con la loro Esperienza, con la loro Saggezza.
Devo ringraziarlo pubblicamente, l’Amico Gabriele, perché – nonostante in questi giorni fosse condizionato da qualche problema di salute – non ha voluto far mancare il quinto “pezzo” della sua rubrica “Le Parole di Dante”: una presenza preziosa, anche questo sabato, che sempre più arricchisce il gusto delle Buone Letture.
Grazie, Gabriele. Mentre già attendiamo con gradevole ansia le prossime “Parole”.

 

– di Gabriele Meoli –

Varcata la porta dell’Inferno, recante la famosa scritta sull’eternità della pena e sulla giustizia divina, superata, poi, nel vestibolo, la torma degli ignavi (…”che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”), non soffermandosi colà per il sollecito fatto da Virgilio (….”non ragioniam di lor, ma guarda e passa”), Dante tuttavia vi scorge e riconosce anche “l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto” (ritenuto, dai più, Pietro da Morrone, che, eletto papa col nome di Celestino Quinto, abdicò dopo soli cinque mesi di pontificato, rendendo possibile l’elezione di Bonifacio VIII; o, da altri, Esaù o Pilato, od anche un simbolico innominato); ma poi, guardando oltre, egli vide “genti a la riva d’un gran fiume”.

I due poeti erano, infatti, pervenuti sulla sponda del fiume infernale Acheronte (“fiume del dolore”), che doveva essere oltrepassato dalle anime dei dannati sulla barca di Caronte (figlio dell’Erebo e della Notte), divinità pagana trasformata in demonio, l’unico con sembianza umana, a differenza di Lucifero, che è invece più lontana dall’uomo.

“Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio, bianco per antico pelo/, gridando “guai a voi, anime prave!/Non isperate mai veder lo cielo/ i ‘vegno per menarvi a l’altra riva/ne le tenebre etterne/in caldo e ‘ngelo”.

Così inizia a raccontare Dante, con parole con cui Caronte reitera l’annuncio, scritto sulla porta infernale d’entrata, della caduta di ogni speranza per i dannati, e prospetta loro le principali sofferenze che li attendono tra fiamme e ghiaccio.

Poi, con tono iroso, quel traghettatore, accorgendosi che Dante è vivo, cerca di opporsi al suo passaggio sulla barca, dicendo che vi sono altri mezzi ed altre rive per giungere al luogo di sua destinazione (che accoglie le anime salve).

Ma sulla scena, per placare il demone, interviene Virgilio dicendo “Caron, non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole e più non dimandare”; risposta che ripeterà in modo simile anche a Minosse e Pluto, per così indicare che v’è, al riguardo. una incontrastabile volontà divina. “quinci fur quete le lanose gote/al nocchier de la livida palude/ch’intorno a li occhi avea di fiamme rote”.

Invero è di tutti i giorni il comportamento di chi, avendo un potere, lo usi con intransigenza verso gli altri; ma poi si arrende di fronte ad una prevalente volontà superiore e tuttavia continui ad imperversare sui suoi eventuali deboli sottoposti.

Infatti, le indifese anime dei dannati, udite le parole crudeli a loro pocanzi rivolte da Caronte, si agitano tremando e imprecando, ma “Caron dimonio con occhi di bragia/loro accennando, tutte le raccoglie:/batte col remo qualunque s’adagia”.

E, mentre la barca di Caronte, col suo “carico” si allontana, Dante scorge già nuova folla di peccatori giungere sulla sponda per il traghetto (“Così sen vanno per l’onda bruna/e avanti che sien di là discesi,/anche di qua nuova schiera s’auna”), come a segno, anche odierno, che le colpe e le pene sono davvero senza fine.

Il poeta fa poi dire da Virgilio che quei peccatori “pronti son a trapassar lo rio,/ché la divina giustizia li sprona,/sì che la tema si volge in disio”.

È, infatti, anche attuale il sentimento di chi, in vista di un duro passo inevitabile, finisce per affrettare o addirittura desiderare la pena, pur di rimuovere l’ansia dell’attesa.

L’attività di quel demone nocchiero di anime dannate, destinate all’Inferno, può ricordare, sia pure vagamente, l’attuale e ben diverso fenomeno di certi traghettatori di viventi, egualmente disperati benché incolpevoli, da essi ammassati su precarie imbarcazioni, non per una finalità punitiva ma per ricavarne danaro, magari illusi di poter finalmente vedere un cielo più sereno ed invece destinati spesso, per un probabile naufragio, a raggiungere soltanto il fondo del mare, insieme a tutte le loro povere speranze di una vita migliore.

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