Al capolinea della ragione

 – Di Anna Carmen Lo Calzo-

“Mi scusi, ferma sempre in San Babila?”
“Sì, ma è vietato salire da qui. Vada alla porta posteriore. Non la conosce la regola?”
Non prendevo un mezzo pubblico da un anno e mezzo e mi sono sentita a disagio quando il conducente della 54 mi ha redarguita. Prendere un mezzo pubblico a Milano nelle ore di punta in piena pandemia rappresenta un azzardo. Un atto di coraggio che rasenta l’irresponsabilità nei confronti di sé stessi e dei propri cari. A prescindere dal ligio conducente che quando sali ti dirotta verso la porta posteriore, secondo protocollo, i mezzi pubblici di questa città sono assolutamente fuori controllo, sin dalla prima ondata del contagio. Non esiste contingentamento, non esiste un sistema che garantisca ai passeggeri di viaggiare in sicurezza. Qualcuno dice che non è vero, anzi, più di qualcuno. E invece io dico che lo è! Provare per credere.

Cinzia è salita sulla 54 intorno alle 19 di un mercoledì di aprile. Siamo al capolinea di uno degli autobus più frequentati della città. Io ci sono salita per ripararmi da un temporale e per fare solo due fermate che mi conducono davanti al portone di casa. La 54 parte dalla stazione di Lambrate, a est della metropoli, e arriva in pieno centro. Le fermate sono tantissime e questo bus trasporta da sempre un pubblico molto variegato per età, razza, religione e, ahimé, odori. Nelle ore di punta è sempre stato impossibile salirci. Ho sempre pensato che sarebbe stato necessario adottare il modello giapponese: sulla metro di Tokyo venivo spinta da manine con guanti bianchi che di lavoro fanno “quelli che ti azzeccano” per farti arrivare puntuale al lavoro.
Un bel giorno è arrivato il virus ed io ho smesso di prendere tram, bus e metro. Il Covid-19 è stato accolto dai passeggeri con nasi e bocche tappati dalle maschere della salvezza. Le braccia e le mani sono rimaste libere di attaccarsi alle maniglie. Ma povere mani, anche loro hanno subìto una condanna: sono responsabili della trasmissione del virus se si avvicinano a naso, bocca e occhi e quindi vanno continuamente aggredite dal gel. Maschera, gel, distanziamento, guanti, quante volte abbiamo pronunciato questo mantra. Panico, emergenza, decreti, protocolli, regole, limitazioni, restrizioni. Tutta la Babele che conosciamo, tutto lo sconforto, i danni, le perdite subìte dai lavoratori penalizzati dalle chiusure. E sui mezzi di trasporto pubblico? A parte i treni veloci, sembra di essere su carri bestiame in era pre-covid.

Cinzia ed io siamo sedute una accanto all’altra: i sedili sono tutti disponibili, senza alternanza, e il pavimento non riporta alcuna linea di distanziamento. Sono le 18.55, la 54 sta per partire ed è piena come l’uovo. Indossiamo entrambe una FFP2, cerchiamo di non sfiorarci, ma ad un certo punto ci guardiamo negli occhi perplesse, con una complicità degna di due sorelle e, dopo un attimo di esitazione, lei parte. “Non ti starai mica meravigliando, vero? E’ la prima volta che sali su questa linea a quest’ora?”. Le rispondo di sì. “Mi chiamo Cinzia, prendo questo autobus ogni giorno da quando siamo in pandemia, mi sparo tutto il viaggio, da capolinea a capolinea, due volte al giorno. Secondo te è normale che in aprile 2021, dopo più di una anno di pandemia, siamo ancora in queste condizioni? Appiccicati come sardine. Ci hanno chiuso le nostre attività, ci hanno ridotto alla fame perché dobbiamo combattere il virus che contagia se non rimaniamo distanziati e qui c’è gente che, come me, due volte al giorno, si fa più di un’ora di tragitto in questa situazione. Modello trasporto carni da macello”. Rimango in silenzio per non agitarla ulteriormente. “Ho chiuso il mio negozio in un centro commerciale, lo avevo aperto solo un anno prima del lockdown. Ho lasciato a casa tre persone, di cui due con moglie e figli. Allora ti chiederai, perché su questo autobus? Perché, da quando ho chiuso l’attività, faccio la baby sitter dall’altra parte di Milano. Il negozio è fallito, secondo “loro” abbiamo protetto i clienti, oltre a noi stessi. Peccato che qualche giorno fa, proprio su questo autobus, ne ho incontrato uno. Che meraviglia, ci si rivede! Certo, come no, tutti insieme, appassionatamente sulla 54, ammassati come bestie. Il centro commerciale nel quale le persone entravano in sicurezza, nel rispetto di tutte le regole e nel quale avevo investito tutto quello che avevo, è chiuso da mesi perché bisogna combattere il virus. Il mio negozio è fallito, i miei ex dipendenti sono disperati, ma tutti coloro che prendono questo autobus sono esposti al contagio come in nessun altro luogo al mondo. Ah, dimenticavo! Mia madre ha 82 anni e non è stata ancora vaccinata”.
Mentre Cinzia sfoga tutta la sua frustrazione e la sua rabbia e prosegue con le riflessioni su contraddizioni e paradossi della gestione di tutti noi in questa assurda pandemia, il bus arriva a destinazione finale.
Cinzia mi saluta ringraziandomi per averla ascoltata e le sue ultime parole sono: “Io sono arrivata anche oggi al capolinea della 54, ma loro sono arrivati al capolinea della logica, del raziocinio e della ragione”.
Come darle torto.

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