De Mita ultimo atto: cinico perfino con se stesso

Sabato scorso ho titolato come segue l’apertura dell’edizione serale del Tg di Irpinia Tv su un pezzo di straordinaria chiarezza cronachistica del giovane collega Emanuele Marinelli: “Il Progetto Pilota / De Mita ultimo atto, i sindaci lo ‘sfrattano’, show di insulti della figlia Antonia”.

È l’essenza di una movimentata assemblea dei primi cittadini, o loro delegati, dei comuni altirpini, presieduta dall’ex leader nazionale della Dc ed ex Premier, attuale sindaco di Nusco, educatamente contestato per la gestione infruttuosa, monocratica e anacronistica del Piano che avrebbe dovuto risollevare le sorti di quel versante dell’Irpinia e che sempre più si va rivelando un clamoroso fallimento.

È la rappresentazione sintetica ma rigorosamente aderente alla realtà della sostanziale, definitiva uscita di scena del politico che, nel bene e nel male, è stato il principale protagonista della storia irpina degli ultimi sessant’anni: una storia replicata con successo sul palcoscenico nazionale almeno fino al 2008, data di nascita del Partito Democratico e della legittima e orgogliosa rottura di “Ciriaco” con Walter Veltroni.

Ma ora – prima di tornare a Nusco, e all’assemblea dei sindaci del Progetto Pilota – consentitemi una breve digressione, un salto all’indietro nel tempo, utilizzando la “memoria” di Stefano Sorvino nella sua eccellente monografia di Carmelo Caruso, il Servitore dello Stato – autentico, fedelissimo, coraggioso e grande innovatore – che resse la Prefettura di Avellino per un quadriennio all’indomani del terremoto del 1980.

Alle pagine 79 e seguente dell’opera di Sorvino si legge: “…I primi Anni Ottanta registrano la grande avanzata della falange politica irpina in ambito nazionale (De Mita, Mancino, Bianco, De Vito, Gargani…), vittoriosamente proiettata ai vertici del partito di maggioranza e del governo, dopo il tramonto della leadership storica di Fiorentino Sullo, giovanissimo “padre costituente” e poi esponente di primissimo piano della sinistra democristiana e più volte ministro. Nel 1982 Ciriaco De Mita, leader indiscusso della provincia e della “sinistra di base”, viene eletto segretario nazionale della Democrazia Cristiana; Gerardo Bianco è presidente dei deputati Dc; Giuseppe Gargani è sottosegretario alla Giustizia; il senatore Salverino De Vito diviene ministro degli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno con il governo Craxi; Nicola Mancino è eletto nel 1984 alla presidenza del gruppo Dc a Palazzo Madama (diventerà poi, nel decennio successivo ministro dell’Interno e presidente del Senato)…”.

Fin qui il brevissimo stralcio dal volume di Sorvino, al quale, come appendice, si potrebbero aggiungere i diversi dicasteri retti da De Mita nella sua straordinaria carriera politica e istituzionale, fino alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (1988-1989). E, non ultimo, si potrebbe (e dovrebbe) sottolineare la notazione che fu soprattutto grazie a lui che i cosiddetti “Magnifici Sette” dell’intellighenzia politica irpina poterono ricoprire, certamente anche per merito, ruoli di primissimo piano nel panorama nazionale.

Ora, tornando a Nusco, devo subito dire che ho voluto ricordare un pezzo – solo un pezzo – di storia politica demitiana perché appare inverosimile, e fa decisamente male, finanche ad uno come me che non gli rivolge la parola da oltre 10 anni, la circostanza dell’uscita di scena nel modo peggiore di una personalità dello spessore di Ciriaco. Certo, non si contano gli incidenti della storia che hanno visto cadere nel fango – più che nella polvere, qual è il caso di De Mita – personaggi di grandissimo valore e prestigio. Epperò qui c’è qualcosa in più dell’incidente: qui c’è la presunzione dell’immortalità, sicché il tempo andato è come se non fosse mai passato; e c’è la pretesa di legittimità democratica di un Pensiero Unico imposto dall’alto delle glorie che furono, e per di più esercitato con arroganza, con l’auto-riconoscimento del diritto all’insulto addirittura esteso ai propri familiari.

E nel bel mezzo dell’assemblea degli amministratori, infatti, che la primogenita del leader, Antonia, irrompe sulla scena e si lascia andare ad uno show di volgari ingiurie che rendono irriconoscibile la figlia dell’ex Premier che accompagnava il padre sulla tomba di Kennedy, o agli incontri con Gorbaciov e gli altri grandi del mondo. Quella di sabato a Nusco è la giornalista Antonia che s’impossessa della scena, in un contesto istituzionale in cui non c’entra niente, e cinicamente immerge nel tritacarne dell’offesa gratuita Rosanna Repole (“Tu sei una cessa”, giusto per citare l’espressione meno volgare, e tralasciando allusioni sessuali irripetibili), e i sindaci (“Siete tutti stronzi e delinquenti”, “Tu dovresti andare a pulire il sedere a mio padre”, e via con robaccia del genere).

Lui, il padre, l’ex grande leader politico, cosa avrebbe potuto fare e non ha fatto? Avrebbe potuto e dovuto scusarsi per l’irruzione della figlia, magari inventandosi che sta attraversando un periodo “no” o una qualsiasi fesseria del genere. Niente da fare: oltre ad essere politicamente presuntuosi e arroganti, i De Mita di questa genìa sono orgogliosi perfino del torto, il familismo elevato a virtù: “Mia figlia è molto legata a me: è intervenuta per difendermi”. Amen! L’antica tattica del Volpone politico, la sua impareggiabile capacità di trasformarsi da boia in vittima: un esercizio accademico che pratica da sempre, senza scrupoli quando finisce nella polvere. Come ora.

De Mita ultimo atto. Poteva uscire di scena quand’era il tempo giusto, come fanno i Grandi. Avrebbe potuto consegnare alla storia d’Irpinia (e d’Italia) l’immagine e il ricordo del leader ragionatore e dalla rara intelligenza politica; il figlio del sarto di Nusco che passo dopo passo, filo dopo filo riesce a tessere negli Anni Settanta e Ottanta l’interpretazione più originale e meglio articolata della crisi dei partiti e del sistema democratico, anticipatore in qualche senso e misura delle riflessioni sulla “modernità liquida” sviluppate da Bauman.

Ma tant’è. Rispetto al “Villaggio politico globale”, lui ha optato per quello locale: il villaggio della gestione del potere fino alle briciole, dello stile da Podestà, del familismo fino a che morte non ci separi, della sopraffazione verso chiunque osi discuterne pensiero e comando. Da anni il copione è sempre lo stesso, nessuna novità, soliti vizi e niente virtù aggiuntive. Non si è reso conto, De Mita, che da un bel po’ il teatro si è svuotato, e non per colpa del Virus; che perfino gli applausi virtuali si sono diradati come nebbia all’avanzare del giorno; che nemmeno i fedelissimi seguono le note dello spartito, trovandole superate, e preferiscono improvvisare ritornelli che sembrano parafrasare – in senso ironico, non già ideale ed epico – l’“Addio mio bello addio / che l’armata se ne va / se non partissi anch’io / sarebbe una viltà”.

Peccato non aver abbandonato la scena al tempo giusto! La storia di Ciriaco De Mita non meritava questo finale, al limite del patetico. Ma se l’è cercato lui. Si può ben dire che è stato politicamente cinico perfino con se stesso.

I commenti sono chiusi.