La giustizia

Nell’antico Egitto

Nel corso del tempo, la Giustizia umana ha sempre vantato “PARENTELA COL DIVINO”. Gli esperti hanno accertato che, nel civile antico Egitto, la stessa legge si fondava sul concetto di giustizia, impersonata addirittura da una divinità (la dea Maat), che era la protettrice dei giudici e la cui effige presiedeva i processi; ed anche il Faraone dettava le leggi come espressione dell’ideale di giustizia.

Infatti, quella egizia, più che una legislazione in senso tecnico, era un diritto pratico, poiché le decisioni giudiziarie venivano adottate per ciascun caso, senza attenersi necessariamente al diritto precedente.

Pertanto le leggi continuavano ad essere applicabili finché non fossero state modificate da una decisione del Faraone; il quale poteva, quindi, adottare anche statuizioni in difformità con la legislazione, purché conformi all’idea della Giustizia, dovendo assicurare l’ordine divino e della natura, anche con riti nei templi.

Egli presiedeva l’amministrazione della giustizia, dettando leggi ed emettendo sentenze, ed era coadiuvato da un potente “visir” e da governatori delle province per le controversie locali.

Quanto al processo civile, sappiamo che le parti si difendevano da sole e che le decisioni si basavano su prove documentali supportate da testimonianze.

Da rari papiri giuridici si apprende che era chiaro il concetto di proprietà privata, trasmissibile per eredità o “inter vivos” (vendita o donazione); che esisteva uguaglianza giuridica tra marito e moglie, i quali potevano stipulare contratti matrimoniali ed attuare legati o locazioni; che si procedeva alla registrazione dei contratti; e che era conosciuto il diritto internazionale.

In procedura penale esisteva l’interrogatorio dell’imputato ed, a volte, anche la tortura. In caso di condanna del reo, spettava al Faraone la scelta della pena, ma il condannato poteva impugnare la decisione ricorrendo agli oracoli.

Nell’antica Grecia

Mentre in Omero ed Esiodo il potere di esercitare la giustizia era un privilegio reale, poiché erano i re, portatori di scettro, ad emettere le sentenze (Themistes), invece, nella civilissima Grecia della democratica Atene del tempo di Pericle, tale potere era esercitato dal popolo, che lasciava alla venerabile assemblea dell’Aeropago solo talune cause di assassinio.

Ma, prima che la macchina della Giustizia si mettesse in moto, poteva operare un’istituzione, profondamente ateniese, più politica che giudiziaria, costituita dall’ostracismo, che consentiva di allontanare provvisoriamente dalla città, senza un vero processo perché senza un’effettiva imputazione, quei cittadini che manifestavano una pretesa, reale o supposta, alla tirannia; e, quindi, costituiva una preventiva difesa contro il relativo tentativo.

Operava a tal fine un’apposita assemblea straordinaria, presieduta dagli arconti, sull’agorà, come in antico; ed ivi i cittadini esprimevano voto segreto che non era valido se inferiore a 6.000.

L’ostracizzato aveva 10 giorni di dilazione per salutare i suoi cari e prepararsi una sistemazione purché fuori dell’Attica, non potendo avvicinarsi ad Atene, ma tuttavia restando libero di scegliere dove altrove abitare ed anche di cambiare dimora.

Egli conservava la disponibilità dei suoi beni, che non gli venivano confiscati, come invece in conseguenza di un vero e proprio esilio.

Tra gli illustri ateniesi, vennero colpiti da ostracismo anche Temistocle, il vincitore di Salamina, Cimone, figlio di Milziade, Tucidide, figlio di Melesia, avversario di Pericle (da non confondere con l’omonimo storico) ed il demagogo Iperbolo.

Per esigenze pubbliche straordinarie, l’ostracismo poté, anche prima della sua durata massima (10 anni), venir revocato, come avvenne allorché Serse, prima della battaglia di Salamina, già minacciava l’invasione della Grecia. In tale circostanza poterono, infatti, ritornare tutti gli ostracizzati, e cioè Megaele, prozio di Pericle, Alcibiade il Vecchio, Santippo, padre di Pericle e Aristide detto “il giusto”.

Almeno ad Atene, solo in pochi casi l’iniziativa di un’incriminazione avveniva d’ufficio, non esistendo un vero e proprio “Pubblico Ministero”.

In tutte le cause private, solo la persona che si riteneva interessata perché lesa, poteva intentare un processo agendo in giudizio, anche assistita da una specie di avvocato (Sinégora).

Invece, nelle cause di pubblico interesse, ogni cittadino che lo volesse (ò bolumenos), ove si riteneva leso quale membro della collettività, aveva il potere-dovere di venire in aiuto alla legge presentando una denuncia, anche se ciò favoriva il fenomeno dei “sicofanti”.

Inferno

Con un salto nel tempo, è interessante ricordare la visione dantesca della giustizia, nell’Inferno.

Essa terrorizza i dannati, i quali vanno “a vicenda ciascuno al giudizio”, confessandosi dinanzi a Minosse che è in “udienza” e “stavvi orribilmente e ringhia”

“Quel conoscitor de le peccata” (“iura novit curia”) esamina le loro colpe “ne l’intrata”, vede qual loco di inferno si addice a ciascun peccatore ed, attorcigliando la sua lunghissima coda, “giudica e manda secondo ch’avvinghia”.

Qui il processo è fulmineo, descritto con un solo endecasillabo che menziona l’istruttoria dibattimentale, la pronuncia della condanna e l’esecuzione della pena inflitta alle anime dannate, che infatti “dicono ed odono e poi son giù volte”.

La rapidità di questo processo, può fare anche pensare, per contrapposizione, alla ben nota lentezza della giustizia sulla terra, che già con Cicerone vedeva “lites fere immortales” per la loro durata.

Ma è difficile stabilire se, come si dibatte da sempre, sia auspicabile, per noi umani, un procedere molto più veloce della macchina giudiziaria, a tutto svantaggio di una più accurata ponderazione da parte del giudice, allorché egli, non per sua negligenza, ma per far davvero giustizia a garanzia dell’accusato, prenda tempi lunghi per emettere la sua decisione; che a volte, specialmente se è di condanna, è per lui un vero tormento.

Infatti, è almeno certo, per comune esperienza, che “presto e bene di rado avviene”.

Peraltro, in qualche occasione la rapidità del processo e l’immediato verdetto finale dei giudici dipendevano davvero dall’abilità del difensore.

Viene ricordato, al riguardo, il colpo di scena ideato, nell’antica Grecia ateniese, dal grande oratore e uomo politico Iperide (che fu quasi sempre al fianco di Demostene e ne condivise la tragica sorte del 322 a.C.)

Infatti, nel 347 a.C., era sotto processo, perché accusata di empietà per aver violato i misteri, la bellissima cortigiana Frina, già modello di Prassitele, in due statue di Afrodite e forse anche di Apelle in un suo dipinto, difesa appunto da Iperide, il quale – si narra – avrebbe strappato ai giudici una pronta assoluzione di lei, inducendola a mostrare il suo corpo al Tribunale e sostenendo la sacralità della bellezza pura.

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