L’ACCHIAPPATORE DI BAMBINI

(F.G.) – Cedo volentieri lo spazio dell’Editoriale di oggi alla riflessione di Mirella Napodano su un particolare aspetto delle vicende afghane. Ve ne consiglio la lettura: la Professoressa Napodano, che ancora pubblicamente ringrazio, coglie con la maestria letteraria, che le è congeniale, l’essenza della tragedia che si sta consumando a Kabul attraverso l’ episodio che simbolicamente ha fatto inginocchiare la parte buona del mondo dinanzi allo slancio di genuina umanità degli “acchiappatori” di bambini.

– di Mirella Napodano –

In questo nostro strano mondo succede anche questo. Nell’inferno di Kabul, dove migliaia di volti senza nome e di veli senza identità implorano miseramente di poter lasciare il paese per sfuggire alle rappresaglie dei talebani e ai prevedibili feroci attentati dell’ISIS, un semplice funzionario dell’Ambasciata italiana in Afghanistan dal 2019 – tale Tommaso Claudi – si trasforma improvvisamente in una sorta di levatrice con elmetto e giubotto antiproiettile, proteso com’è in cima ad un muro a strappare bambini dalle braccia dei genitori che glieli offrono quasi in un mitico, corale sacrificio, spingendoli in alto con la speranza di salvarli da una morte annunciata e donar loro di nuovo la vita: una vita finalmente degna di questo nome. Inesprimibile è l’angoscia che pervade una simile scena: da una parte si odono grida di aiuto, appelli disperati dei genitori, pianti terrorizzati dei bambini che sopravanzano gli spari (in aria?) delle guardie impegnate ad arginare con ulteriore violenza questo fiume in piena di dolore, questa mattanza impietosa destinata col tempo – in carenza di seri provvedimenti – a trasformarsi in genocidio di una popolazione inerme prostrata dagli stenti.

Neppure nella tragedia greca potremmo trovare esempi di altrettanta desolazione; la stessa strage degli innocenti di cui si dice nel Vangelo riguardava soltanto (si fa per dire) i primogeniti maschi di una determinata fascia di età e non l’intera popolazione infantile, come accade in questa occasione. E in questa bolgia infernale c’è qualcuno, un italiano – Dio, ti ringrazio! – che si inventa il ruolo di acchiappatore di bambini offerti dai genitori straziati perché qualcuno li raccolga e li accompagni in un percorso di salvezza nel resto della loro vita appena sbocciata. Ad aiutarlo, a valle del muro, altre braccia di improvvisati volontari protese ad afferrare al volo i piccoli già in salvo perché l’operazione in atto possa proseguire per recuperare nel più breve tempo possibile altre piccole vite, come in un prodigioso salvataggio a catena. E in tutto questo l’oscuro funzionario di Ambasciata, che la pietà ha trasformato in eroe-ostetrico di ri-nascite attese ed impreviste, dice semplicemente di sé: “Faccio il mio lavoro, che è un lavoro di gruppo. Sono salito su quel muro solo per aiutare gli afghani”.

Una scena filmata nel fumo e nella polvere da qualcuno dei coraggiosi giornalisti inviati a Kabul dalle emittenti televisive di tutto il mondo ha registrato l’estremo, tenero abbraccio di un lattante di pochi mesi che si aggrappa istintivamente alla divisa mimetica di un imbarazzato marine, cui la madre lo ha affidato in un estremo atto di amore. Purtroppo è assai probabile che siano morti entrambi pochi minuti dopo – certamente ancora abbracciati – nel corso del primo dei devastanti attentati orditi dall’ISIS all’aeroporto della capitale afghana. Mi sto chiedendo (Apocalypse now?) se sia proprio questa la ‘grande tribolazione’ definita come tale nell’Apocalisse…

Non so esattamente perché, ma questa visione evoca anche in me con insistenza l’immagine della ruota degli esposti della Real Casa dell’Annunziata di Napoli, con cui il malcapitato bambino – abbandonato da chi avrebbe dovuto prendersene cura – veniva proiettato in totale anonimato all’interno di una stanza-nursery, in cui una bambinaia prontamente lo immergeva nella vaschetta con fontanella ad acqua calda per il primo bagno, per poi rivestirlo con capi di corredino neonatale donati dalla pietà dei benefattori delle varie parrocchie partenopee. Ammetto onestamente che le affinità tra questi due contesti storici in cui si determina l’esperienza del distacco dai genitori sono quasi inesistenti: sporadico, anonimo e non tumultuoso come a Kabul l’abbandono dei bambini a Napoli; abbastanza efficace per la società dell’epoca l’assetto del welfare State borbonico: nessun campo profughi che si profilasse all’orizzonte, ma la permanenza nella comunità della Real Casa, protratta per tutto il tempo necessario ad apprendere un lavoro per i ragazzi o trovare marito per le ragazze, che nel frattempo ricamavano il loro corredo, elemento indispensabile per un eventuale matrimonio. Eppure per il singolo bambino, in qualunque contesto storico, il trauma psico-fisico del distacco e dell’assenza dei genitori è lo stesso, implacabile sentimento di perdita identitaria che lo perseguiterà per tutta la vita, come un incubo ricorrente, una dolorosa ricerca, un bisogno inespresso di contenimento delle ansie da abbandono accompagnato dal fondato dubbio di non avere qualcuno che ti sostenga in caso di bisogno. Il rischio che si profila all’orizzonte dopo avvenimenti di questa portata è che le inenarrabili violenze fisiche e psicologiche subite dai bambini afghani – per le quali non c’è oblio che tenga – si trasformino col tempo nella cieca furia di un odio indiscriminato verso tutto e tutti.

Il severo monito espresso ieri a Ventotene da Sergio Mattarella, dove ha celebrato gli 80 anni dal Manifesto che ha posto le basi dell’Europa Unita, invoca per la UE il dovere etico dell’accoglienza, al quale per ora in Italia – non fosse altro che per motivi elettorali – neppure i populisti più accaniti trovano la sfrontatezza di ribellarsi apertamente, salvo a chiedere che – per compensazione aritmetica (ci dev’essere un algoritmo anche per questo da qualche parte!) – vengano abbandonati alla loro sorte tanti altri profughi in mare, rei di fuggire dalle loro case per la crisi climatica, le lotte tribali e tutte le altre catastrofiche conseguenze del bieco e secolare sfruttamento operato nei paesi cosiddetti ‘a basso reddito’ da opulente potenze plutocratiche.

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