“DAR DA BERE AGLI ASSETATI” – OPERA DI MISERICORDIA E NECESSITÀ VITALE

Sul pianeta Arrakis, quasi interamente coperto di sabbie, l’acqua è più preziosa dell’oro. A peggiorare l’estrema aridità del pianeta, provvedono i vermi giganti che scavando nella sabbia consumano la poca acqua presente. I Fremen – gli indigeni di Arrakis – loro malgrado, li venerano come dei perché producono una droga prodigiosa: la Spezia, che allunga la vita e dona, a chi la assume, la prescienza. Strano modo, però, di venerare un Creatore che per sua stessa natura rimuove la fonte primaria della vita: l’acqua. Per difendersi dall’idratazione, i Fremen vivono incapsulati in tute distillanti e igienizzanti, che riciclano i liquidi prodotti dal proprio corpo per essere di nuovo riutilizzati.
Questa, per sommi capi, l’ambientazione e una parte dei protagonisti del film Dune, presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e uscito, da due giorni, nelle sale cinematografiche.
“Un pianeta che soffre per la mancanza d’acqua. Un popolo spinto alla violenza da questo bisogno. Una cultura, una civiltà che cerca di superare una simile avversità!” Questa le motivazioni che spinsero lo scrittore statunitense Frank Herbert, nel 1965, a scrivere prima Dune e poi tutta una serie di sequel; tanto da creare una vera e propria saga con altri cinque volumi. Si dice che lo scrittore fosse ossessionato dal problema dell’acqua e del suo approvvigionamento – e io aggiungo dalla sua buona dose di preveggenza – considerato che erano gli anni ’60 e certo i problemi delle risorse idriche – ai quali stiamo andando incontro col cambiamento climatico – non si erano ancora manifestati. Il virgolettato di prima, perciò, calza a pennello se solo lo adottiamo per la situazione mondiale attuale.
Solo un esempio: sui libri di storia leggiamo fin dalle elementari che la culla della civiltà – la Mesopotamia e l’Egitto – ha avuto sviluppo e prosperità a motivo dell’agricoltura florida dovuta ai territori della “mezzaluna fertile”: sponde del Nilo, coste orientali del Mediterraneo e valle dei fiumi Tigri ed Eufrate. E questo per ben 15.000 anni, dalla fine dell’ultima glaciazione fino ad oggi.
E si – fino ad oggi – perché adesso scopriamo che proprio il territorio tra i due fiumi, con l’Eufrate che ormai è diventato un rigagnolo, si sta inaridendo in una maniera tale che le popolazioni locali sono costrette a spostarsi per decine e decine di chilometri, per procurarsi un po’ acqua potabile.
Come dire: al popolo martoriato dell’Iraq, non è bastata la guerra!
Quando parliamo di utilizzo dell’acqua – e io aggiungerei di sperpero dell’acqua – pensiamo alle fabbriche del modo industrializzato e agli allevamenti intensivi di bestiame, per fare solo due esempi macroscopici.
Ma come sopravvivremmo noi, se ci trovassimo nella condizione di un Fremen.
Penuria d’acqua…attrezziamoci!
Strano rapporto il nostro verso l’acqua: quando abbonda, ci dimentichiamo di quanto sia importante; quando invece scarseggia non riusciamo più a pensare ad altro.
E in effetti la preoccupazione è giustificata. Senza un apporto idrico adeguato le nostre funzioni fisiche e cognitive si deteriorano e la mancanza totale di acqua provoca la morte nell’arco di qualche giorno.
Gli umani dipendono dall’acqua più di molti altri mammiferi.
L’acqua ha plasmato il corso della nostra evoluzione. Nel periodo compreso tra circa 3 e 2 milioni di anni fa, il clima dell’Africa, in cui ebbe inizio l’evoluzione degli ominini (i membri della famiglia umana) divenne più secco. In questo intervallo di tempo il genere primitivo di ominini, Australopithecus lasciò spazio al nostro genere Homo. Nel corso di questa transizione, le proporzioni del corpo mutarono. Mentre gli australopitechi erano bassi e corpulenti, l’Homo aveva una corporatura più alta e slanciata. Questi cambiamenti ridussero l’esposizione dei nostri antenati a radiazioni solari e ne aumentarono il modo di disperdere il calore e la loro efficienza idrica. Questa transizione di struttura fisica si accompagnò ad altri adattamenti fondamentali. Con la migliore capacità degli ominini di spostarsi su due gambe in ambienti aperti si verificò anche una perdita di pelo corporeo e lo sviluppo di un maggiore numero di ghiandole sudoripare.
Le ghiandole sudoripare svolgono un ruolo chiave nella nostra storia. L’evaporazione del sudore rinfresca la pelle e i vasi sanguigni, e ciò a sua volta raffredda l’intero corpo. Secondo un recente studio dell’Università della Pennsylvania, l’abbondanza delle ghiandole sudoripare eccrine della pelle, potrebbe essere dovuta a mutazioni ripetute del gene Engrailed-1. In ambienti relativamente secchi simili a quelli in cui si sono evoluti i primi ominini. Questa mutazione deve essersi dimostrata fondamentale. Secondo un altro studio, dell’Università Carolina di Praga un Homo erectus avrebbe potuto cacciare – inseguendo e catturando per sfinimento la preda – per circa cinque ore nel caldo della savana prima di perdere il dieci per cento della massa liquida.
Questa soglia del 10% – dovuta principalmente a disidratazione – è una soglia oltre cui si ha un grave rischio di problemi fisiologici e neurologici, ed è necessario perciò ripristinare l’idratazione.
La nostra vulnerabilità alla disidratazione corporea è ben maggiore di quella dei nostri cugini primati, e ben superiore a quella di animali adattatisi nel deserto come pecore, cammelli e capre, che possono perdere fino dal 20 al 40% dell’acqua senza rischiare di morire. Uno dei sistemi di adattamento nei mammiferi riguarda il funzionamento dei reni, che mantengono l’equilibrio idrico e salino del corpo. Per esempio il Chaetodipus Penicillatus, un roditore del deserto, può vivere senza acqua per mesi, grazie alla capacità dei suoi reni di concentrare l’urina a livelli estremi. La nostra capacità limitata, in questo senso, implica che l’uomo non riesce a rimanere senz’acqua per un periodo di tempo minimamente paragonabile a quello di un roditore del deserto. E non abbiamo nemmeno la capacità di accumulare acqua, come fa per esempio un cammello, accumulandola nel prestomaco. Se ne bevessimo molta – con l’intento di stiparla nel nostro corpo, potrebbe come problema provocare lo stesso, uno squilibrio elettrolitico, e causare iponatremia – livelli troppo bassi di sodio nel sangue – potenzialmente letale come la disidratazione.

Acqua non significa solo: bere

La flessibilità della nostra alimentazione è forse la nostra migliore difesa contro la disidratazione. Circa il 20/30 % dell’acqua che una persona ingerisce deriva dal cibo. Questo dato varia in popolazioni che per tradizione o necessità hanno tipi di alimentazione diversa da quelli di una società occidentale. Per il popolo degli Tsimane – che vivono nella foresta amazzonica – frutta e vegetazione forniscono il 50 % del loro introito idrico totale. Anche per i giapponesi la metà del loro fabbisogno idrico è ricavato dagli alimenti. I Daasanach – una comunità di pastori del Kenya – consumano grandi quantità di latte, composto per l’ 87 % di acqua e inoltre succhiano radici.
Ci sono due linee guida sull’apporto idrico giornaliero, che comprende l’acqua proveniente dal cibo. Quella dell’U.S. National Academy of Medicine che raccomanda l’assunzione di 3,7 litri al giorno per gli uomini e 2,7 litri al giorno per le donne, mentre l’Autorità europea per la sicurezza alimentare consiglia invece 2,5 litri d’acqua al giorno per gli uomini e 2 litri per le donne, con incrementi in entrambi i casi di 300/700 millilitri per le donne in gravidanza e in allattamento.
Alcuni studi, per il momento solo sperimentali e condotti su pecore e ratti, dimostrano come una penuria d‘acqua in gravidanza provochi cambiamenti significativi nel modo in cui i loro discendenti percepiscono la disidratazione. I figli di madri deprivate di acqua, rispetto ai discendenti di madre ben idratate arrivano ad un maggiore livello di disidratazione – l’urina e il sangue sono più concentrati -. Queste scoperte dimostrano come la soglia di disidratazione di un individuo si definisca già nell’utero materno.
Acqua poca…ma pulita
Uno dei problemi dell’approvvigionamento e dell’utilizzo dell’acqua riguarda il reperimento di risorse che siano prive di contaminazioni chimiche e batteriche. In questo, paradossalmente – a differenza di chi dispone di acqua corrente – le popolazioni che provvedono ad approvvigionarsi attraverso gli alimenti o piante, in alcuni casi, hanno maggiori garanzie di fonti pulite. Facciamo degli esempi: sempre gli Tsimane della Bolivia ricavano l’acqua esclusivamente da alcune piante rampicanti e da frutti, come la papaya. Hanno meno probabilità di contrarre la diarrea rispetto a bere acqua da eventuali sorgenti contaminate. Alcune popolazioni, sempre della foresta amazzonica hanno sviluppato tradizioni alimentari che comprendono bevande fermentate e poco alcoliche come la chicha, una bevanda fermentata prodotta con yucca e cassava. Questa bevanda oltre che essere associata a minori probabilità di disidratazione, possiede capacità di abbattimento della carica batterica dovuta al contenuto, anche se modesto, di alcol.
Doppio finale
Evoluzione, adattamenti, strategie, soluzioni, sono tutte tappe che l’uomo ha percorso nello sviluppo della sua storia. Come abbiamo visto le tecniche messe in atto da alcune delle popolazioni locali per concedersi il necessario approvvigionamento personale di acqua, hanno tutte tradizioni vecchie di secoli. E hanno tutte un denominatore comune: il perfetto e rispettoso equilibrio con l’ambiente circostante.
Per i paesi industrializzati un monito e una ulteriore presa di coscienza e di responsabilità per adeguarsi al medesimo rispetto.
Ora chiudo con un omaggio ad un amico che ama particolarmente le citazioni letterarie.
Nel caso in esame, intorno all’acqua ruotano: una tradizione tutta nostra di rinomate sorgenti, costume partenopeo e pene d’amore.
E’ un racconto di Salvatore Di Giacomo da Passeggiate Napoletane, titolo: “L’impazzito per l’acqua”.
Lo scrittore raccoglie storie del popolo passeggiando tra quei vicoli che sono il cuore di Napoli, e si imbatte nel vociare delle “comari” che dai “balconcelli” si trasmettono informazioni e commenti.
I social e le chat via etere – ad anticipare il web – come si sa, sono tradizione secolare a Napoli.
Fine ‘800, un acquafrescaio Peppino Battimelli, del vico Marconiglio, è stato spedito all’ospedale dei matti.
Il fatto: il giovane acquaiolo gestisce l’attività – la sua “banca” – sotto un balconcello dalla balaustra di colonnine di legno, “a petto di colombo” come se ne vedono spesso a sormontare i bassi. Da questo balcone si affaccia spesso una “capera” ad innaffiare le sue rose. E’ solo un pretesto per dialogare con Peppino; lei vedova “con capelli neri copiosi e belli” e “nude braccia bianche, tornite e lisce”.
La capera “sospirava e rientrava lentamente. Impossibile commuovere quest’acquaiolo malinconico”. Che importava la sua vedovanza? A volte meglio vedova che zitella. Ma Peppino non ne voleva sapere. Che peccato!
Cosi il poeta, nel suo breve racconto.
Passa poi a descrivere come il Battimelli di colpo impazzisce, e lo fa riportando le parole della madre del giovane, che incontra durante la passeggiata nel vicolo.
“Domenica scorsa bestemmiando – Gesù, lui che non ha mai bestemmiato! – in un impeto frenetico ha afferrato un coltello e si voleva ammazzare. E salito su un balcone al quinto piano, a vico Fico, s’è spogliato nudo e voleva precipitarsi. Nemmeno l’ossa si sarebbero trovate”.
E col cuore di madre dà la sua versione. “Volete sapere perché è mpazzuto? Gioia mia, pe l’acqua do Serino. L’acqua nosta nun se veve cchiù. A che simmo arrivate! Comme fosse veleno!”
In quegli anni un’ingiunzione comunale ordinava agli acquafrescai di non usare acqua che non fosse del serinese.
La donna va via e a quel punto si diffonde il vociare delle “comari”.
Per loro c’è tutta un’altra versione, e continuando con le parole di Di Giacomo: – Il diavolo del terzo peccato alitava sulle facce sudate. Gli uomini ridevano contentissimi; gridavano e ridevano pur le femmine in quello scoppio di miserevole brutalità –
“Vui vedite a fantasia e l’ommo addò va a sbattere!”- una rossa in camicetta bianca.
Anche la capera dal suo balconcello: “Quanno uno sta sulo sbarea. Quann’è nzurato penza a mugliera. Chi tene belli denari sempe conta. E chi tene bella mugliera sempe canta”.
“ È overo – diceva la rossa – Ma Peppino ‘ o teneva o nunu’ o teneva o core mpietto?”
“I che saccio” rispondeva la capera, ridendo.
E ancora la rossa, con intorno una nidiata di marmocchi, levando le braccia e gridando a tutti i maschi del vico: “Uommene! Uommene! Nzurateve! “
Il mistico matto ormai è dimenticato.
Le femmine gridano con la rossa, le braccia tese: “Nzurateve!” “Nzurateve!”.

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