Il violino di Sena

(Franco Genzale) – Ringrazio Emilia Bersabea Cirillo per averci concesso la pubblicazione di un suo racconto – Il Violino di Sena – scritto qualche anno fa. La ringrazio per lo straordinario spessore umano della storia che racconta, per la limpidezza incisiva della sua scrittura e, non ultimo, per il messaggio d’un sentimento universale che “Il violino di Sena” magistralmente interpreta nella tragica attualità dell’orrore generato dalla follia di Putin con la scelta di massacrare il popolo ucraino, calpestare la civiltà occidentale, minacciare la guerra nucleare e mettere così a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta.
Con il Violino di Sena, Emilia ha saputo toccare le corde più intime e sensibili dell’animo collettivo: le note che ne sono derivate compongono un inno alla vita e alla pace d’inarrivabile genuinità e amore.


Di Emilia Bersabea Cirillo

Pioverà. Oggi pioverà: non faremo la passeggiata a Licosa, penso aprendo le imposte nella cucina, e noi, coi nostri ospiti tutto il giorno non sapremo che fare. No, oggi non può piovere né tirare vento, mi dico con un sospiro di sollievo, spiando il cielo sgombro di nuvole, al di là delle colline.

Il primo caffè lo bevo fuori, rannicchiata sulla sedia a sdraio, di fronte al mare. La porcellana sottile lascia passare il calore del caffè e mi brucio il polpastrello, ma anche questa è un’abitudine, un segno per dire che sono proprio a Licosa, nella mia casa di pietra, sospesa tra il rumore del mare che rotola sugli scogli e il silenzio delle voci, perché tutti dormono, tutti sognano ancora. Qui dormire è la pura felicità. Solo io dormo poco. Ho l’abitudine di alzarmi presto, dovunque mi trovi. Queste ore sono assolutamente tutte per me, poi si inizia a fare, comunque, a chiedere, comunque, l’incantesimo si rompe, come può rompersi qui. Non sono crepe, né spaccature, solo sottilissime lesioni. E’ che noi cerchiamo la perfezione, la pretendiamo qui molto più che altrove, la felicità è una parola assoluta, che deve prenderci il corpo e le gambe ed anche una sola piccolissima lesione renderebbe tutto imperfetto.

Mi alzo presto perché prima di affrontare il giorno, voglio il silenzio e l’umido della notte sotto i piedi, voglio sentire il mio corpo posarsi sulla terra fredda, imprimere la mia traccia, come dire, sono, questo è la mia prova più vera, esisto sulla terra.

Ho bevuto tutto il caffè, senza accorgermene. Rientro in casa, prendo altro caffè, gironzolo, di nuovo fuori, il sole si leva, dietro la collina. Ora dappertutto è chiaro, luminoso. Sarà una giornata splendente, magica, come tutte le nostre giornate al mare, penso. Saluto con un ciao della mano la mia ospite, che deve avere la mia stessa mania del mattino, solo che lei è già vestita, anche con le scarpe ai piedi.

-Questo posto mi ricorda la nostra casa.- mi dice- Abbiamo abitato in una casa di pietra con un giardino di alberi come i tuoi. A g r u m i – sillaba con uno sforzo. – Mi hanno svegliato gli uccelli. A casa c’erano uccelli, tutto il giorno.-

Ha occhi azzurri come due fessure e un viso largo, con zigomi larghi, come una piccola matrioska. Così è Sena. Violinista di Sarajevo. Con suo marito Rahman sono scappati da Herceg-novi, un villaggio sul mare, dove si erano rifugiati, per approdare nella nostra terra. Non conosco altro di lei.

Non vuole caffè. Lei aspetta il marito che dorme ancora. Non è abituata a tanto silenzio, le sembra impossibile che in Italia si possa vivere in un posto ancora così bello, ripete come una bambina. Anche a me piace molto, rispondo, si chiama Licosa, senti che suono. Una volta c’erano le sirene, laggiù dove é l’isola, che incantavano i naviganti.

Sena sorride.

Dopo andiamo a fare una passeggiata fino alla punta dove c’è un approdo, è una mezz’ora di cammino per un sentiero panoramico di agavi e ginestre rosa, di fronte si vede l’isola con il faro.

Niente mare, dice delusa, io mi volevo bagnare i piedi.

Tutto quello che vuoi, ma dopo, adesso è ancora presto.

Lei gironzola sotto i limoni, la vedo carezzare i frutti con il suo piccolo naso per aria, la vedo guardarsi le mani, portarle sotto il suo piccolo naso, sorridere, strappare un limone che racchiude nel palmo della mano, la vedo scomparire nel frutteto, i passi lenti dentro quelle enormi scarpe anfibie.

Rientro in casa. La giornata é iniziata tranquilla. Metto a bollire le uova, prendo dal frigorifero i formaggi e lo yogurt, il burro e la marmellata. Apparecchio la tavola con le tazzine di porcellana bianca, con i cucchiaini d’argento e la tovaglia del corredo, tutta ricamata a punto a croce, tutto rigorosamente portato da casa per riguardo a loro, ai miei ospiti. Al centro della tavola poggio una piccola torta al burro comprata al forno in paese, sistemo il pane, tagliato in fettine sottili, dentro il cestino di paglia, che copro con un tovagliolo bianco ricamato a fragole.

Mi sembra che non manchi nulla, posso andare a fare una doccia. Dai vetri della cucina intravedo i primi gozzi azzurri e bianchi prendere il mare.

Che si può chiedere di più alla vita. Un raggio di sole arriva dritto sul tavolo della cucina, illuminando le mani di Rahman che imburrano ancora una fetta di pane e la dividono a metà, le mani di mio marito che cercano il pacchetto delle sigarette accanto alla tazza del caffè, le mani di Sena che prendono la metà della fetta imburrata che Rahman le porge, le mie mani che sbucciano un’arancia del giardino. I bambini sono già fuori, loro al mattino a Licosa bevono a stento una tazza di latte e cioccolata e neanche si lavano per poter cominciare subito a giocare sul campetto, a pallone. La loro giornata sarà tutto un gioco che andrà avanti, così, fino a sera. Sena e Rahman non parlano, mangiano e si guardano e mi guardano, ogni tanto il loro sguardo si posa sull’albicocco, sul mare, sui bambini che corrono dietro la palla. Deve essere ben strano, per loro, ritrovarsi in un posto come questo, vivere una giornata di vacanza, ma questo lo penso io, può darsi che i loro pensieri stanno prendendo un’altra piega, per esempio, sul nome bosniaco del falco che vola altissimo.

Se io stessi al loro posto penserei “Che cosa sta succedendo a casa mia, mentre spalmo di burro questa fetta di pane e apro la finestra sul mare per sentire più vicino il canto degli uccelli” io lo penserei. Sono certa che almeno Sena lo pensa, perché tra i due è quella che ha gli occhi lucidi, come se avesse la febbre. Se stesse per piangere? Ha messo una mano sugli occhi, per la luce, dice a scusarsi. Sento aprirsi una sottilissima fessura, proprio là, sulla tavola. Non può accadere proprio ora. Licosa protegge dalla nostalgia, come il castello della bella addormentata. Le chiedo se va tutto bene, se vuole un’aspirina, forse é raffreddata. Tutto bene, ho solo dormito poco, ma dopo la passeggiata starò meglio risponde Sena, dignitosa. Mio marito mi guarda e mi fa cenno di sedere, portandosi lentamente l’indice sulla bocca.

Con loro non so mai come comportarmi. Ho sempre paura di toccare qualche corda inesplorata, di farli sentire provvisori ed ospiti, non è stato facile neppure invitarli a Licosa, è stato mio figlio che lo ha chiesto a Sena, dopo la lezione di violino, cosa avrebbero fatto in città i quattro giorni delle feste di Pasqua, nella loro camera a piano terra, offerta dalla Caritas.

Rahman legge nei miei pensieri. E’ la prima volta che siamo in vacanza. La nostra vita manca di tutto, Simona. In città non avremmo fatto nulla. . Lui ha trovato lavoro in una tipografia. A Sarajevo era grafico in una casa editrice.

Ieri ho fatto l’ultimo concerto, dice Sena. Lei vive di musica e di lezioni private. Proviamo per provare, non ci sono concerti, in programma, per me.

Non saremmo venuti, con te, dice lui. Niente, non c’è niente, continua Rahman e ingoia l’ultimo sorso di caffè. Quando siamo fuggiti dalla Bosnia e siamo arrivati ad Ancona potevamo continuare per la Germania, l’Austria. Abbiamo deciso di restare in Italia. Siamo in Italia soprattutto per arte, per musica.

Non credevo tanta indifferenza, dice Sena. A maggio ci sono le settimane musicali, ma io, proprio allora, devo restituire il violino. Significa che non posso suonare. Dove trovo un violino così adatto a me? Il suo è stato rubato, durante la fuga.

Credo che inizi così, per il violino che un musicista ha prestato a Sena e che lei deve restituire improvvisamente.

Gli artisti non sono mai poveri, dico a Sena, e racconto, forse a sproposito, me ne accorgo dagli occhi di mio marito che si chiudono all’improvviso, la storia di Babette e del suo pranzo. Babette era fuggita dalla sua patria per la guerra, aveva perso tutto e non le restava che un biglietto di una lotteria, l’ospitalità di due vecchie pallide signorine e la sua arte di grande cuoca.

Sena fa così con la testa, come dire, la storia vera è un’altra che non quella che tu mi stai narrando.

Le nostre erano vite sotto un cielo di ogni giorno. Sono state sconvolte all’improvviso, sotto quel cielo. Non puoi sapere che cosa significhi lasciare tutto e dover partire, organizzare le tue cose in poche ore, essere in fuga, dice Rahman, e non te lo voglio neanche raccontare, in una giornata bella, come questa. Guarda l’albicocco di fronte, incorniciato dalla finestra. Ha pochi capelli neri e ricci e una pelle oliva attaccata alle ossa.

Rahman ha portato con sé una valigia di sassi ammucchiati. Li ha disposti ordinati su un tavolino, sotto la finestra, come un piccolo mare. Sono sassi tondi della sua terra, di pietra chiara levigata, bianchi, azzurri, con venature rosse. Quando il sole li illumina sembra levarsi da quelle pietre una luce violacea, come se fossero battute da un incendio. Così ci ha raccontato nostro figlio, tornando a casa dopo la prima lezione, e da allora ogni volta, racconta del colore cangiante dei sassi di Rahman. Sono confusa e vedo il burro sciogliersi nella burriera. Se dovessi andare via da un momento ad un altro perché c’è una guerra, una catastrofe dietro l’angolo di casa, qualcosa di inaspettato e crudele, cosa farei? E perché dovrebbe capitare proprio a noi italiani, dico sollevata, non c’è motivo, l’Italia è in pace col mondo, l’Italia è una repubblica giovane ma solida e noi non dobbiamo fare guerre con nessuno. La nostra sarà una lunga stagione di ben essere e voi potrete restare quanto vi pare, siete ospiti della nostra terra, la Caritas vi protegge. Sena e Rahman non mi ascoltano, guardano fuori, forse pensano al mare, ancora ad un altro mare.

Un casco blu è morto al mio posto per raccogliere cinque mele, racconta Sena, e io non devo stare tanto tranquilla che c’è sempre l’Istria, tra l’Italia e l’ex Iugoslavia.

Sena ha ragione, interviene mio marito, c’è un’interrogazione parlamentare, per conoscere la sorte dell’Istria e degli italiani. I nostri figli potrebbero fare il militare al confine, Simona, tra Muggia e Trieste, dove abbiamo mangiato i bianchetti, ricordi.

Si che mi ricordo, ma i miei figli non faranno il militare, non faranno nulla di nulla, dico esasperata.

Tutto comincia così, dice Sena, per l’egoismo, per la paura della propria morte.

Sono i miei figli che difendo, da un’inutile cosa come guardare confini.

Si sta incrinando tutto, lo sento, la fessura sul tavolo é una crepa, una cicatrice medicata dal tempo, sono l’unica a vederla, a strisciare i polpastrelli sull’orlo screpolato, come il ricordo di Sena, penso, labbra che non si ricuciono; pure a fatica mantengo il sorriso, vorrei piangere, come una madre privata dei figli piange. Non ti sembra di esagerare, dice mio marito e mi passa una mano sul collo, stiamo solo facendo delle ipotesi, che cosa faresti, allora, se venisse davvero una guerra, in Italia.

Non sono più sicura di nulla, adesso.

Sena vuole uscire, vuole andare a bagnare i piedi nell’acqua, dice, anche se ha mangiato da poco e da noi non si usa, lei apre la porta ed è come una fuga, perché non vuole sentire discorsi di pace e non vuole neanche pensare alla guerra, lei non sa neanche se vuole suonare più. Lei non vuole più cose precarie. Sa che non c’è più nulla di duraturo. Sena, la chiamo, la rincorro, lascio tutto sulla tavola. Mio marito continua a discutere con Rahman, fanno finta di non capire che sta accadendo qualcosa, sta andando in frantumi questo mondo che ho preparato per loro, ma non può cambiare così all’improvviso, oggi è venerdì santo, tra qualche giorno è Pasqua, la festa della nostra resurrezione, della nostra libertà dal male.

Sena si incammina verso gli scogli. La rincorro. Sena, aspetta, scendo con te, ma lei non vuole, non vuole nessuno, a testa bassa, mi chiede educatamente se posso lasciarla, che vuole stare da sola col mare.

Io risalgo le scale, lentamente.

Perché qui da noi non potrebbe accadere, un giorno, un nord contro un sud, il nord del mondo contro il sud del mondo, una guerra senza fine, penso, senza riparo, se dovesse accadere verremmo a Licosa, staremmo tutto il tempo nella casa di pietra sul mare ed io mi metterei a fare il punto a croce e a leggere e non vorrei sapere nulla, dico a Rahman. Non esiste un posto dove puoi stare al riparo se il mondo, quello che è più caro per te sta in guerra, mi risponde. Quello che nascondi da una parte ritorna da un’altra, dice, solo chi è ricco e finanzia la guerra vendendo armi sta bene. Quelli sono i soli a sorridere e a sperare che il sangue duri il più a lungo possibile e tu, Simona, sei solo una donna spaventata di perdere quel poco che hai. Rahman pronunzia queste parole con lentezza, lo sguardo duro. Il coltello della verità, dico inquieta, tu sei il coltello della verità. Non capisce. Sta dicendo che hai la forza di dirle la verità, spiega mio marito, conciliante. Che noi tutti non sappiamo di cosa parliamo, continua, quando pensiamo alle guerre civili.

Non puoi avere idea. Siamo stati in pace, perché eravamo una nazione. Ma tante religioni non fanno una patria, dice Rahman. Io sono musulmano, Sena è cristiana, dovevamo essere nemici, dovevamo ucciderci. Se fossimo rimasti sarebbe potuto accadere. Ci hanno rinchiuso in una ex caserma, coperti dei nostri vestiti, nell’odore degli altri, con noi c’era un professore musulmano arrestato dai suoi ex allievi e una maestra che ha visto portarsi via i bambini della sua classe un attimo prima che lei riuscisse a metterli in salvo, e una donna che vagava impazzita nella neve colle sue pantofole di pezza alla ricerca di un gioco appartenuto al figlio, ucciso da un cecchino.

Siamo riusciti a scappare in venti, perché uno di noi ha strangolato una guardia. E’ stata Sena a suggerirci di arrivare in una città di mare. Da là sarebbe stato più facile trovare un imbarco. Anche in quella casa sul mare siamo rimasti nascosti. Si usciva solo nei giorni di nebbia.

Come nel film lo “Sguardo di Ulisse”, lo interrompo.

Il nostro non era un film, dice Rahman.

Mi guarda coi suoi occhi scuri e ripete: “Non puoi avere idea”.

Il sole è alto. I bambini giocano ancora a calcio, li vedo dalla finestra della cucina. A loro si sono uniti i figli dei vicini, gente di Roma che usa la villa solo per i lunghi fine settimana e d’agosto, sono sei sul campetto, ci sono anche due bambine che non conosco. C’é anche mio marito, con loro. Inizio a sparecchiare. Allora andiamo a Licosa appena risale Sena dal mare, dico, cercando di mostrarmi serena, e indosso un grembiule per lavare le tazze e i bicchieri. Rahman poggia sul frigorifero i resti della torta al burro e due uova sode che nessuno ha mangiato. Avevamo due uova a testa al mese e cinquecento grammi di pane alla settimana.

Le cose sono cambiate, la guerra è finita.

Le forze di pace hanno lasciato il nostro paese e noi abbiamo ancor meno di prima, replica Rahman. Nella discarica di Sarajevo vivono ragazzi che rovistano tra i rifiuti per poter mangiare, continua implacabile Rahman, nessuno pensa a loro, mangiano scarti di americani, sono come i topi, come i corvi. Non capisci, Simona, che é tutto perduto, che io e Sena non possiamo più ritornare.

Accende un sigaro, spegne il fiammifero con un movimento veloce della mano.

Siamo profughi. La nostra vita é in affitto. Viviamo ogni giorno come se non avessimo domani.

Profugo, è una parola grossa. Rahman, sei qui da tre anni. Ormai sei quasi italiano.

Profugo é chi non onora i suoi morti là dove hanno vissuto.

Rahman aspira lunghe boccate dal suo sigaro. Io resto con le mani nell’acqua e sapone e non riesco a sciacquare un solo bicchiere. Noi a Sarajevo avevamo amici musicisti, nella filarmonica, sei sono morti, per strada, e quattro donne sono state violentate. Anche Sena é stata violentata, perché era mia moglie.

Lo guardo con le labbra strette e gli occhi chiusi, ti prego, gli dico, non voglio che tu soffra ancora, non voglio sapere, fuori c’è il sole, siamo venuti a Licosa per stare bene, per dimenticare, voglio sentir suonare Sena nella pineta, di fronte al mare, voglio vedere sparire le rughe sulla tua fronte, Rahman, non possiamo ancora vivere di paura e odio, portandoci dentro tutto il dolore del mondo. Tu non vuoi capire, urla Rahman, perché il dolore ti arriva dentro, anche se tu non ci vuoi pensare, anche se tu vuoi fuggire. E’ questo che dovete capire, tutti quanti.

Mi lascia in cucina, lo vedo fermarsi, fuori, gli occhi verso il campetto, col suo sigaro in mano, la sua maglietta di cotone nero, lontano. Infinitamente solo.

Non dovevi dirmi questo, Rahman, non dovevi passarmi il tuo dolore, come una trasfusione, proprio qui, a Licosa, ma adesso è così, non posso fare a meno di pensare alle tue parole, dove vai adesso, anche tu verso il mare, io resto davanti le mie saponate e le mie tazze da lavare, le mie preziose tazzine per la prima colazione, lavo accuratamente le tazze, passando due o tre volte la spugnetta dentro, le sciacquo lentamente, le poso nel gocciolatoio, anche i cucchiaini d’argento, che idea, portare i cucchiaini a Licosa, per raccogliere cosa, per sapere cosa. Sena è stata violentata, è a questo che penso, con le mani nella saponata, lei coi suoi zigomi larghi e le mani sottili, lei così acerba che sembra un ragazzo, che corre e si arrampica sull’albero come uno scoiattolo, lei che suona Bach con il violino prestato, dove ero io, quando le accadeva, quando due uomini la tenevano ferma per i polsi ed un altro la squartava, eravamo chiusi in casa a lustrare i nostri argenti o a incerare i pavimenti di legno, mentre in fila con le madri i bambini morivano al mercato.

Il sole ora è caldo. Sono tornati, Sena e Rahman, li sento parlare nella loro lingua, dall’altra parte della parete. Sento Sena gridare, poi piangere, lui ripete il suo nome velocemente che sembra un lamento, una preghiera di chiesa, poi silenzio, un aprire e chiudere l’armadio, ancora parole sottovoce, un accordo, un altro, Sena prova il suo violino. Sena suona. Sono segni smozzicati, sono graffi sulle pareti.

I bambini adesso vanno in bicicletta, senza mani, una gara a chi fa più giri intorno all’aia, due tre quattro, mamma, gridano, vieni a vederci. Vengo rispondo. Prima passo una mano sugli occhi, il sole cancella il mio viso arrossato, loro sono sudati, felici. Stringo forte i miei figli. Tocco i loro corpi. Dal giardino ascolto il violino lento.

Sena, cosa è questo grido, questo orrore. Come se ci portassero via, in questo giorno, da Licosa, noi, senza più una patria, senza più un dove, noi, solo, un gruppo di carne e vesti, un senza anima in fila, come sacchi di cartapesta, noi cosa faremmo, che cosa saremmo, noi nel mondo, noi stesso dolore, noi stesso carne e sangue, corpi trascinati, sotterrati, senza nomi, appartenenze, ora, dentro questa casa non mia, io, donna migrante, crocifissa, con due patrie, con nessuna patria, solo ricordi, solo voci, solo sassi colorati, solo la mia musica, solo le mie mani, solo il mio violino. Solo.

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