L’Ucraina, l’8 Marzo / Alle fronde dei salici

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.

– di Mirella Napodano –

È desolante vedere un pianoforte muto – o dal suono scordato per il lungo abbandono – ed è altrettanto triste scorgere una chitarra impolverata, abbandonata in un angolo con una corda spezzata. Vien da pensare a quando e perché sia potuto calare il silenzio su questi strumenti, che bravi artigiani hanno costruito con cura perché emettessero suoni melodiosi e qualcuno ha acquistato per poter celebrare in buona compagnia le gioie della musica. Eppure da pochi giorni a questa parte, da quando è scoppiato il conflitto tra Russia e Ucraina, a molti sta capitando anche questo: non aver voglia di suonare, né di ballare e neppure di cantare. Sembrano riecheggiare ancora oggi i versi che Salvatore Quasimodo dedicò nel 1946 al dramma della seconda guerra mondiale da poco conclusa, ispirandosi al Salmo 137 in cui si canta la nostalgia del popolo ebraico esule in terra babilonese:

E come potevamo noi cantare,
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio…
…Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Quasi in controcanto, le voci degli esuli della casa d’Israele deportati in Babilonia intonano così da secoli lontani la nostalgia della madrepatria:
Là, presso i fiumi di Babilonia,
sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.
Ai salici delle sponde avevamo appeso le nostre cetre.
Là ci chiedevano delle canzoni quelli che ci avevano deportati,
dei canti di gioia, dicendo: “Cantateci canzoni di Sion!”
Come potevamo noi cantare i canti del Signore in terra straniera?…

Forse niente come questo salmo riesce ad esprimere appieno la desolazione che ci coglie in questi giorni densi di tristezza, freddi di un gelo che stringe il cuore e che neppure la paura di una catastrofe nucleare riesce a scaldare, sia pure d’un fuoco fatuo e nefasto. Col fiato sospeso, siamo attoniti ed impotenti: fermi alla contemplazione – attraverso lo schermo televisivo o dal cellulare – del dolore e del coraggio parimenti incommensurabili dell’intero popolo ucraino, unito nella resilienza come una sola persona e ormai ai limiti dell’umana sopportabilità, a fronte della più totale volgare e violenta prevaricazione che li ha colpiti nel diritto alla vita e alla libertà.

Siamo ormai all’otto marzo – Giornata internazionale della donna – una ricorrenza che si fa risalire al coraggio di alcune donne russe scese in piazza l’8 marzo del 1917 per protestare contro il regime zarista. Una data divenuta col tempo un consumistico Woman’s Day, preso a pretesto per la vendita di fiori e cioccolatini, oltre che per allegre serate nei locali presi d’assalto da comitive di amiche desiderose di evadere per qualche ora dalla routine delle incombenze giornaliere. Ma non è certo con queste modalità e a questi livelli che andrebbe festeggiata la resilienza delle donne che ogni giorno percorrono in lungo e in largo le vie cittadine per lavoro o per motivi familiari, indaffarate ma quasi sempre sorridenti nel ricambiare un cenno di saluto dietro la mascherina che ancora non riusciamo ad abbandonare. E che dire delle donne ucraine che – alle fronde dei salici –intonano ancora le loro nenie intrise di storia personale e guerre mondiali combattute sul fronte di un focolare senza più legna da ardere, mentre fuori nevica e – per fortuna – il tetto della casa tiene ancora. Ma fino a quando?
Meravigliosi esempi di fede ed eroiche virtù civili, le donne ucraine si attivano in tutti i modi possibili per coccolare i loro bambini, i vecchi, gli sconosciuti con cui possono condividere un panino o una tazza di tè. E lo fanno anche quando l’altro è un giovane soldato russo dal volto rigato di lacrime amare perché è stato costretto ad uccidere dei fratelli, in qualche modo figli di quella stessa madre che gli sta di fronte: attenta, forte, dignitosa, incredibilmente presente a sé stessa e alla Storia. Oh, se quel ragazzo potesse tornare indietro; se potesse – invece di sparare – stringere la mano dei fratelli che portano la divisa di un altro colore e ora dormono sepolti in un campo di grano, senza una rosa né un tulipano. Era già tutto previsto? Fabrizio de André era un profeta? Oh, Dio, mi tremano le mani; ho le vertigini. D’un tratto sento però anch’io una grande forza che mi pervade e mi fa pregare il Rosario con loro, condividendo la fede in Qualcuno che ci sta ascoltando – non tanto dall’alto dei cieli – ma in mezzo a noi, come ci sta dicendo il Vescovo Aiello con poche parole commosse. Gli occhi di tutti sono umidi, ma il cuore è caldo perché sappiamo che stiamo facendo la cosa giusta, guidati dalla forza di una Parola misteriosa e rivelatrice che si fa più palese e incontestabile proprio nella condivisione del dolore. Ho visto inginocchiarsi le ucraine per la preghiera comune – organizzata dalla nostra Diocesi con la Comunità greco-cattolica di rito bizantino di Avellino, guidata da Padre Roman – sul marmo gelato degli scalini della Chiesa del Rosario al Corso di Avellino, dove c’era ancora la neve caduta al mattino. Pregavano insieme a noi per i loro uomini rimasti in patria, per i figli, i nipoti, gli amici, chiedendo a Dio che presto si realizzasse il sogno di vederli scendere come profughi da un autobus impolverato e stracarico, dopo un viaggio inimmaginabile. Eppure l’impossibile è stato fatto, con l’aiuto del generoso volontariato irpino, interamente mobilitato a raccogliere generi di prima necessità, medicine, indumenti e quant’altro potesse tornare utile per la sopravvivenza degli eroici ucraini rimasti in patria e di quelli che si accingevano a partire, a volte senza neppure sapere per dove, come Abramo quando lasciò Ur dei Caldei per rispondere ad una misteriosa chiamata.

La staffetta dei veicoli si è attivata prontamente in tutta Italia, in tutta Europa e l’Irpinia non è stata da meno: per non fare viaggi a vuoto, all’andata si caricano innumerevoli pacchetti e scatole di viveri donati dalla popolazione, al ritorno salgono nei punti di raccolta delle città ucraine le persone più fortunate – si fa per dire – che sono attese in Italia da qualche parente oppure saranno affidate all’accoglienza degli italiani, sotto la guida delle organizzazioni di volontariato, tra cui spiccano la Croce Rossa, L’UNICEF, la Caritas, La Comunità di S. Egidio, ecc., vigili e attive su tutto il territorio europeo. Ma nonostante il benemerito attivismo di tanti, nessuno potrà ridare la vita a madri e figli riversi sull’asfalto insanguinato, al piccolo Kirill, ucciso nei bombardamenti a soli diciotto mesi, che Putin non vede dalla sua poltrona al Cremlino (ma tanto non ci avrebbe fatto caso) ai tanti – troppi! – volti anonimi coperti per sempre dalla polvere dei palazzi caduti e incendiati dai bombardamenti.

Le numerose persone che a Leopoli dormono nei bunker nella speranza di sfuggire alle incursioni degli invasori sanno di essere in buona compagnia: la famosa statua di Cristo Salvatore di epoca medioevale – emblema della città – è stata infatti prontamente rimossa dall’antica cattedrale armena e depositata con tutte le precauzioni del caso in un bunker segreto, per evitare il peggio. A dislocare e sistemare la sacra effigie in un camion sono stati alcuni uomini coraggiosi decisi a salvare – oltre alle persone in pericolo – anche le principali opere d’arte diffuse nel cuore pulsante della città.

Qualcuno ha pensato bene di fotografare la delicata operazione e diffonderne l’immagine via web, facendola rimbalzare da un cellulare all’altro. Il risultato è un senso di arcano sgomento che coglie chiunque nel vedere l’artistico Crocefisso tra le braccia di uomini in giubbotto antiproiettile mentre amorosamente lo portano al sicuro, ma forse a loro volta gli stanno chiedendo protezione in un mutuo, silenzioso scambio di messaggi di pace e libertà.

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