Dedicato a Mario Cesa

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano

– di Mirella Napodano –

“Ciao Musica!” era il saluto che rivolgevo al maestro Mario Cesa ogni volta che ci incontravamo lungo il corso Vittorio Emanuele di Avellino e che lui ricambiava scherzando argutamente sulle tre note musicali che compongono il mio nome. C’era evidentemente qualcosa di genetico nella nostra amicizia, quasi di arcano presagio, come una profezia che si autoavvera. Lui, l’incarnazione della Musica: linguaggio universale di cui conosceva ed interpretava appassionatamente tutte le declinazioni fin dalla gioventù, quando suonava Chopin per noi ragazzini su un vecchio pianoforte in dotazione dell’Episcopio. Il suo genio faceva già presagire i traguardi di livello mondiale cui sarebbe approdato anni dopo con meravigliose composizioni in musica dodecafonica, ma i tempi erano troppo acerbi perché in città qualcuno di quelli che contano se ne accorgesse, fino a facilitargli il percorso professionale e a valorizzare il suo talento, anche a vantaggio della comunità. Dal mio canto, incantata melomane fin da bambina, io ero lì a guardare le mani del pianista come in trance, rapita nell’ascolto e pronta a vivere una mia dimensione musicale nell’agile corporeità deI ballo e nell’avventura del canto. Più tardi avrei provato a studiare privatamente chitarra classica con un altro grande maestro avellinese precocemente scomparso, che qui mi piace ricordare: Angelo Pugliese. Altre circostanze avverse, tra cui il terremoto dell’80 insieme a sempre più pressanti impegni lavorativi e familiari, mi costrinsero poi – mio malgrado – a rinunciare ad ogni velleità musicale di tipo performativo.
Intanto Mario viveva della sua musica, maturando nei frequenti viaggi all’estero il suo peculiare messaggio musicale nel confronto con esperienze artistiche variegate: percorsi che lo avrebbero visto protagonista di eventi di portata internazionale, del cui successo personale parlava agli amici con apparente noncuranza, come se volesse sentirsi nonostante tutto uno di noi, per non rischiare di frapporre un diaframma tra la sua persona e la comunità affettiva cui era profondamente legato. Come dire che il genio si nasconde per non disturbare la quiete di una quotidianità routinaria, dove non c’è posto per la ricerca e talvolta neppure per la curiosità. Da profondo conoscitore delle nobili tradizioni musicali del folklore irpino, seppe trarne ispirazione per le sue più riuscite composizioni, alla ricerca di contaminazioni e nuovi linguaggi espressivi. E furono proprio i “Cinque esercizi sulle feste popolari irpine” ad affascinare Bruno Canino, che li aggiunse al suo repertorio, segnando una svolta epocale nell’avventura dell’emergente compositore irpino. Erano tempi rivoluzionari, in cui molti giovani di Avellino, guidati da Gaetano Vardaro, puntavano al decollo della cultura irpina sul piano nazionale. A ciò contribuì non poco la produzione di Mario Cesa, con la sua originale allusività al folklore irpino e alle ritualità metropolitane, adottata nei repertori dei maggiori autori e solisti italiani – tra cui luigi Nono – e pubblicata da case di incisione di altissimo profilo. Ma è nelle partiture delle sue opere che è racchiuso il suo vero pensiero musicale, che reputo di grande rilevanza filosofica, per cui sono stata felice di apprendere, da insigni artisti, critici musicali e docenti del Conservatorio ‘D. Cimarosa’ di Avellino, che si è in procinto di attivare specifici circuiti di ricerca su questi preziosi materiali.
Il colpo di genio era inevitabile in chi come Mario amava profondamente la propria terra e sapeva costruire ponti e relazioni significative con tutti e con ciascuno. E venne il tempo felice della rassegna internazionale Musica in Irpinia, con i concerti nel chiostro dell’Abbazia di Loreto in Mercogliano, in cui prestigiose orchestre e solisti di rilievo mondiale passarono per Avellino, a richiamare un pubblico di appassionati anche da altre regioni. E fu proprio al cospetto del magnifico spettacolo di Montevergine inondata di note musicali che scrissi quasi di getto questi versi, che oggi dedico a Mario nel primo anniversario della sua morte:

Concerto a Loreto
Rintocchi sommessi dall’orologio maiolicato
nel cupo smeraldo della sera
come lento, struggente richiamo
ad un amore distante ma non lontano…
Vagano nel cielo turchino, trasparente,
echi di dolci nenie notturne:
passano come languide carezze
sul femmineo profilo della montagna.
Dietro le antiche vetrate
bianche figure ieratiche contemplano immobili
il tenue suono dei violini
presto trasportato dal vento più in alto,
in cima alle rocce scoscese, tra i ciuffi di ginestre.
Soffuse, le note della sinfonia
si disperdono nei boschi,
rubate in volo dagli uccelli:
pentagrammi impigliati ai rami delle betulle
come frasi d’amore rapite agli amanti.
Intanto, io inseguo nell’aria
un dolce sorriso familiare:
sorriso luminoso, forma di rimpianto e tenerezza,
muto invito a rimanere per sempre,
a dar credito alla poesia di una vita
che è un perenne ritrovarsi.
Ora, i rami della kenzya proiettano
uno steccato di ombre danzanti
sull’argentea solitudine dei miei sogni.
La notte mi è complice
nel celare le lacrime presto riarse
dalla brezza leggera dell’autunno che incalza;
è un pianto che tracima dal lago degli occhi
troppo colmo di parole non dette, di carezze rimandate,
di slanci sopìti in un battito di ciglia.
Prodigio di un amore pieno di messaggi
che accoglie e racchiude il dolore
e per sempre ti ringrazia di esistere.

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