Salvate Luca dalla vergogna

Ore 10.00, corsia di uno degli ospedali più affollati di Milano.
Il corridoio accoglie un assembramento di anziani che si aggirano alla ricerca del loro ambulatorio, tra sguardi smarriti e mani tremanti che sventolano impegnative, accettazioni, referti.

Alla ricerca di un infermiere perduto o di un assistente di sala che sappia dare indicazioni su cosa fare, da chi andare, dove aspettare.

Nel frattempo, infermiere abbardate con cuffie sanitarie, maschere e guanti, trasportano pazienti, tutti molto anziani, diretti nelle sale operatorie per gli interventi in day hospital.

Un flusso continuo di voci, domande, dubbi e piccoli “gruppi solidali” che si formano di minuto in minuto.
I pazienti affaticati cercano sedie libere ( poche, modello “età dei dinosauri”), si confortano a vicenda, si raccontano acciacchi e anamnesi per rendere meno gravosa l’attesa, l’incertezza il caos.

La situazione è seria, ma allo tempo stesso è quasi grottesca.

Com’ è possibile che accada tutto questo nella corsia di un ospedale d’eccellenza, nella Milano efficiente e organizzata, in una delle Regioni più performanti dal punto di vista del Servizio Sanitario Nazionale?

Coloro che dovrebbero godere di una “corsia riservata”, ovvero gli anziani, in questo reparto sembrano dei sopravvissuti sulla corsia d’emergenza.

Premetto di essere in assoluta buona fede nei confronti degli operatori del settore: medici, specializzandi, infermieri che, per esperienza personale , stimo e considero veri e propri angeli, soldati, missionari, oltre che scienziati.
Nel 99,9 per cento dei casi ho incontrato persone perbene, anime, a prescindere dal ruolo e dalle capacità professionali.

Premesso che risulta superficiale e ridondante lamentarsi sempre e comunque dell’apparato pubblico, delle sue disfunzioni e mancanze, il mio non è uno sfogo retorico.

Premesso che anche nel sistema privato si riscontrano inadeguatezze, malasanità, anomalie, a volte più gravi di quelle riscontrate nelle strutture sanitarie pubbliche, non posso evitare di accendere un faro sulla realtà inquietante di questa struttura perché non è la prima volta che la riscontro.

Per rispetto a molti medici che conosco personalmente, a tutti coloro che ogni giorno si spendono e si prodigano nelle attività di assistenza e di presa in carico dei pazienti e per rispetto e solidarietà nei confronti degli stessi pazienti che frequentano questo posto, non cito il nome della struttura.

Mi soffermo sul racconto di un pezzo di vita dal punto di vista sociale, umano, culturale.

Si sono fatte le 12.00 e ormai si tratta di un vero e proprio assembramento fuori controllo.
Insieme ad invalidi e accompagnatori, gli anziani sono lasciati completamente allo sbaraglio, come se non esistesse un coordinamento, un senso di responsabilità ai vertici del reparto, del settore, della struttura.

In realtà, gli ambulatori sono tutti occupati da medici che visitano pazienti uno dopo l’altro tipo catena di montaggio. Le visite però sono irrimediabilmente rallentate e la coda sempre più lunga.
La maggior parte di questi dottori sono giovani e mostrano un imbarazzo visibilmente stampato sui loro visi e nei loro sguardi, increduli per lo spettacolo che li attende ogni volta che riaprono la porta della loro stanza.

Si comprende facilmente che il problema dello stallo e della confusione non deriva da loro.
Siamo nel pieno del delirio di una organizzarne totalmente inesistente.

Mentre aspetto che mio padre ultranovantenne ricompaia, mi rivolgo al giovane specializzando che lo ha seguito nella sua procedura terapeutica iniziata praticamente all’alba.

Si chiama Luca, ha 28 anni, si trova in questo reparto da circa un mese.
Sta cercando un modo per risolvere un disagio che non esita a manifestare.
Un ingorgo, un “contrattempo” di origine organizzativa tra diversi padiglioni? Gente che viene rimbalzata da altri settori per cambiamenti interni e strumenti non funzionanti?
Pare sia questa la spiegazione ed è così da settimane.
Il dr. Luca inizia a parlare:

“Andiamo! Non è accettabile! Non si può giustificare tutto, qui ogni giorno decine di anziani vengono mandati da un settore all’altro senza un criterio e soprattutto senza preavviso.
Come fa un disabile a spostarsi da un reparto all’altro perché nessuno gli ha detto che il suo esame, ormai da giorni, si fa da un’altra parte?
Come si fa ad avere un solo strumento per tutto il reparto? Arrivano qui arrabbiati – quando arrivano – e hanno ragione!
Avvisare i familiari e gli accompagnatori con un sms? Costa troppo?
Qui nessuno si occupa del servizio di informazione ai pazienti. Nessuno!”.

Il dr. Luca è furioso e iperconnesso mentre cerca di ricostruire la storia dei pazienti che deve visitare.
Si prodiga, passa dal cellulare al pc, al telefono fisso, esce ed entra dalla stanza, parla con una infermiera e mi chiede di attendere. Mio padre, nel frattempo, non si vede.

Dagli ascensori continuano a scendere pazienti che si accumulano intorno alla solita e unica infermiera viene investita di domande e circondata come un presidente dopo la conferenza stampa.
Non sanno dove sono e non sanno dove andare. Qualcuno si arrabbia per davvero.

L’aria è viziata, nonostante le mascherine.
“Aprite le finestre!”
Una signora in grave sovrappeso non si sente bene, mi precipito ad aprire le finestre e mi prendo gli insulti di un’ altra signora esile, provata, vestita da escursione al Polo Nord che mi urla in milanese:

” Sciura! Io ciò la cervicale e il rafredùr. Sciura! Chiuda tutto lì… che poi el dutur non me la fa mica un’altra ricetta!”
Non sia mai, obbedisco!

Finalmente il dr. Luca, lo specializzando, mi chiama. Il papà ricompare ed io lo raggiungo.
La stanza nel quale è parcheggiato, sinceramente, sembra un ambulatorio del quarto mondo.
Intonaco al limite della decenza, finestre e porte luride, camici ingrigiti appesi insieme a ombrelli rotti, odore di polvere, computer sporchi.
La stampante non funziona e il dottore, seriamente imbarazzato, ci dice che se vogliamo il referto dobbiamo aspettare.
Il papà ha fame, è quasi l’una e non ha fatto colazione.

A questo punto, mi faccio coraggio, cerco di non sparare troppo sulla Crocerossa e gli chiedo pacatamente cosa stia succedendo.

Luca mi guarda come se avesse di fronte un confessore, mi ringrazia per la pazienza e per il tono rassicurante ( di solito viene aggredito da sfoghi e lamentele irrazionali) e mi dice:

“Signora, il papà è a posto, ora le spiego la terapia.
Per quanto riguarda il “cosa succede”, io so solo che qui non funziona niente.
Mi trovo in questi ambulatori da più di 3 settimane e non riesco a fare il mio lavoro.
Il collega che mi ha preceduto lamentava la stessa situazione.
Si tratta di avere delle responsabilità, siamo in un ospedale, trattiamo soprattutto gli anziani, io sono un semplice specializzando, ma qui rischiamo qualche casino serio.
Disorganizzazione, mancanza di comunicazione e di trasferimento dei dati, di strumenti, di materiali. Errori nelle liste dei pazienti.
La stampante rotta è la metafora di tutto. Siamo bloccati.
Signora, qui c’è da vergognarsi a metterci la faccia!
La sera, quando finisco il mio lavoro di medico, devo fare il segretario e cercare di mettere a posto documenti e scartoffie.
Siamo trattati come gli ultimi, ma siamo in prima linea. Mi vergogno, capisce?”.

Rimango colpita dalla frase del “perdere la faccia” e della vergogna.
Un giovane che sta studiando e sudando per iniziare la sua carriera non può ritrovarsi a essere tarpato sul nascere.

Questi ragazzi con il camice, gli specialisti del futuro sono il nostro futuro.
Non meritano un simile approccio alla vita che hanno scelto. Una vita di sacrifici, di immersione nella sofferenza altrui che và alleviata, curata, confortata.
I giovani medici non possono più essere la ruota che trascina il carro a suon di una gavetta che riceve in cambio svilimento e spesso sfruttamento.

Il dr. Luca è desolato per la totale assenza di carta in tutto il reparto.
Il referto si dovrà ritirare domani, forse.

Si scusa per lo sfogo e per tutto e mi ringrazia nuovamente per pazienza e tolleranza.

Il papà, per fortuna, non sente nulla di questi discorsi perché è piuttosto sordo e, come quasi tutti suoi “colleghi” in attesa là fuori, concentrato esclusivamente su se stesso e sui suoi acciacchi.
Paradossalmente, gli basta essere curato da una equipe di giovani in gamba e aggiornati ed è felice.
È così, gli anziani hanno bisogno di loro per sentirsi sicuri, ma non basta.

Gli faccio indossare il cappotto, saluto Luca con un sorriso e una parola di incoraggiamento e ce ne andiamo.

In quei pochi minuti mi rendo conto di cosa possa significare per un giovane medico specializzando richiudere la porta di quella stanza che sa più di sconfitta che di futuro.

Luca è uno dei tanti, uno che ha avuto il coraggio di mettersi in gioco per dedicarsi a uno dei mestieri più nobili e più delicati del mondo.
Quello che salva vite mentre siamo in vita.

È una questione culturale, oltre che materiale. I luoghi della salute hanno bisogno che “dietro alle quinte” ci siano teste pensanti, oltre che individui che eseguono i compiti male.
Ho l’impressione che l’involuzione stia ormai toccando le corde più profonde del senso della vita e del suo valore.

Quando parlo di fattore culturale, mi riferisco a quella percezione del valore del lavoro, dei propri ruoli, delle cose ben fatte e non fatte a metà.
Ho già trattato questo argomento quando raccontai del viaggio in Italia e della mancanza di competenza nell’accoglienza turistica.
Lavorare bene significa innalzarsi e anche questo fa parte della cultura.

Questi episodi di “malasanità organizzata” sono lo specchio della nostra società piegata su se stessa, appiattita dalla mancanza di senso critico, di autostima, di senso della realtà.

Luca deve poter lavorare, i suoi pazienti anziani devono potersi fidare di lui, a prescindere dalla sua cordialità, devono poter contare su un ambulatorio sano, funzionante.
I muri e le finestre possono anche essere vecchi, ma le teste di chi organizza devono essere sane, fresche, responsabili, operative, alla loro altezza.

I giovani specializzandi implorano supporto tanto quanto i loro pazienti.
Questa è una realtà.
Mi auguro di non doverla mai più raccontare.

Forza Luca!
I nonni ti vogliono bene e tifano per te.
Non mollare!

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