Life is a journey

Ho viaggiato per quasi un mese in Medio Oriente e in Asia, tra impegni di lavoro e qualche meta turistica.

Riflettendo sul tema del viaggio, della scoperta dei luoghi, della gente, delle diversità, mi torna alla mente il proverbio: “partire è un po’ morire”.

In questo momento storico, purtroppo, lo è per tanti migranti che partono alla ricerca di una vita.
L’ ennesima tragedia degli sbarchi e del tentativo di salvarsi da guerre e orrori andando incontro alla morte nel Mediterraneo, mi ha fatto urlare di rabbia.

Mentre volavo nel confort e nella certezza di avere tutto ciò che quei poveri migranti sognavano annegando, pensavo al significato del viaggio per quelli come noi.

Noi non siamo migranti, non siamo fuggiaschi, non siamo perseguitati e quando lasciamo un luogo nella consapevolezza che forse non lo rivedremo mai più, spesso siamo turbati, malinconici, tristi.

C’è nostalgia nel lasciare, nel “decollare all’indietro”, nel tornare alla vita di sempre, la vita che quei bambini, quelle donne e quegli uomini sognavano mentre annegavano.
Che paradosso ingombrante.

Partire non dovrebbe essere mai morire. Partire è un concetto nobile, sacro, un elemento essenziale alla vita.
Partire è “caos” di corpi e di anime che si mettono in gioco e creano un nuovo assetto all’interno di sé.
La gente, i luoghi, le storie di vita che si intrecciano, le idee, le opportunità che si generano, gli eventi, le emozioni che vibrano in un viaggio, rappresentano una delle manifestazioni più alte e più nobili del potenziale umano.

Il viaggio e la vita sono legati indissolubilmente, sono due concetti interscambiabili.
Nella vita, come nel viaggio, cerchiamo, troviamo, facciamo i conti con le tracce che lasciamo e con quelle che abbiamo calpestato per non perderci.
Un processo continuo, un inno alla vita.

La visione romantica e filosofica del concetto “partire è morire” mi ricorda lo struggimento della fine di un amore, di un’amicizia, di un rapporto umano.
Si ha paura della perdita e della fine di una storia, tanto quanto della morte.
Mi ha sempre affascinato l’analisi della paura del distacco, della partenza figurata, del dolore legato alla fine, alla perdita.
In conclusione, la giustificazione è sempre la stessa: rappresenta la paura della morte.

Se la parola “fine” non ci piace, possiamo trasformarla in “pausa” . Quella che serve per aprire il bagaglio e rimettere in ordine ciò che ci è indispensabile per procedere.

Se la vita è un viaggio, la valigia sarà sempre pronta.

Non so cosa avessero quei migranti annegati a Cutro nei loro fagotti, oltre alla speranza.
Di certo non erano tristi o nostalgici quando salirono a bordo dell’imbarcazione ammassati, pensando di essere a poche miglia dalla salvezza.

Per loro il viaggio è finito così, con una virata troppo violenta nel mare della vergogna.

La vita è stata un viaggio anche per loro? Probabilmente sì ma, a differenza nostra, i loro bagagli erano completamente vuoti di cose belle. Si sarebbero riempiti solo se fossero arrivati a terra.

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