Annacarla e le altre

Annacarla e le altre
di Luigi Anzalone

Recensione di Mirella Napodano

Questo libro è una convinta, partecipe celebrazione ‘dell’amore e della gioventù’, come l’autore stesso dichiara – con palese compiacimento – nel sottotitolo, senza minimamente smentirsi in nessuna delle circa trecentocinquanta avvincenti pagine che seguono. Ma è nello stesso tempo una straordinaria celebrazione di quello che Goethe nel finale del suo monumentale Faust definisce l’eterno femminino: “Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa; l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé.” Si rivela così la femminilità nella sua essenza immutabile, eterea, attraente, in qualche modo regale e insieme archetipica. Non solo, quindi, il fascino femminile, ma una femminilità velata e svelata che tramite il suo potenziale erotico è simbolo di un potere personale a seconda dei casi salvifico o devastante. Una femminilità diffusa e spalmata, o per meglio dire declinata, nella lunga carrellata di esponenti del gentil sesso che si affacciano tra le pagine del testo quasi balzandone fuori con plastica evidenza, emergendo volta a volta tra le righe di carta stampata come Venere tra le onde dell’Egeo. E insieme alle donne, nel testo si legge di storie d’amore vissute intensamente – spesso in maniera entusiastica – nello stupore contemplativo che solo un grande amore può provocare, lasciando una traccia indelebile nell’animo di chi ha avuto la ventura di provarlo, anche solo per poco e senza poter dar vita a progetti per un futuro in comune. E certamente amore è parola polisemica, laddove trasfonde il suo messaggio a seconda del luogo e delle circostanze in cui si colloca, nel tentativo di costruire un’armonia oggi sempre più rara tra il Sé e l’altro, tra il me che si completa in te come interfaccia di due alterità che si intrecciano nei percorsi esistenziali talvolta facendosi sintesi, talaltra marcando dolorosamente un’estraneità.

Ed è proprio per fare l’elogio dell’amore che Gino Anzalone interrompe momentaneamente il flusso pseudo-biografico delle narrazioni sentimentali per citare il Simposio di Platone, in cui si racconta di un gruppo di amici – naturalmente tutti uomini – che, seduti intorno ad un tavolo, trascorrono un’intera serata a dialogare per cercare di venire a capo del significato di questo sentimento. Senonché l’approccio più convincente è alla fine quello di una donna, Diotima, che risolve l’enigma rifacendosi all’origine di Eros, nato per caso (?) lo stesso giorno di Afrodite da Poros, dio dell’astuzia e dell’espediente e da Penia, dea della povertà. Eros per sua natura non è né mortale né immortale: nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna vivo grazie alle mille risorse di cui è stato dotato dal padre. La sua vera aspirazione non è l’unione con l’amata, ma l’illimitata ricerca della conoscenza di una bellezza che non potrà mai possedere. Eros si accontenta di vivere nella passione del sapere, sempre in bilico tra sapienza e ignoranza. Non diversamente da lui, la lunga schiera di innamorati che Gino descrive nel suo testo vivono di ondivaghe sensazioni d’amore, quasi nostalgici di quella originaria androginia ipotizzata nella mitologia greca, che forse avrebbe loro assicurato un’appagante completezza dei sensi.

Narra infatti il mito che i primitivi androgini, dotati di otto arti e di due volti ai lati della testa, avevano tuttavia una sola anima. Essi erano di forte temperamento, al punto da decidere di ribellarsi agli dei; fu così che Zeus pensò di tagliarli a metà per renderli più deboli. Da allora, quando gli uomini e le donne incontrano l’anima gemella, sono presi da una straordinaria emozione d’amore e non sanno più vivere senza l’altro nemmeno per un istante. Il loro desiderio è quello di diventare insieme alla persona amata una ‘monade leibniziana senza porte e finestre’ – sto citando l’autore – uno spazio identitario, intimo ed esclusivo. La storia che meglio esprime questo sentimento è quella di Maria Elena e Claudio, vittime di un colpo di fulmine al loro primo incontro in una festa danzante organizzata in casa, come era in uso negli anni ’70. La fusione dei loro corpi nel classico ballo della mattonella, carezzati dalla dolce melodia di un’immortale dichiarazione d’amore firmata Sergio Endrigo, non è altro che l’incontro di due metà che si ritrovano tra milioni di uomini e giurano all’istante di non separarsi più. E pazienza poi se le cose vanno come devono andare e ‘La vie separe ceux qui s’aiment, tout doucement, sans faire de bruit’ e le onde del mare cancellano ben presto sulla sabbia i passi degli amanti che si separano. Niente altro che ‘foglie morte’ sono persino i baci più appassionati quando la vita prende un’altra piega, forse inautentica, ma inappellabile. Il tardivo epilogo della storia d’amore di Maria Elena e Claudio sembra tuttavia smentire ogni facile profezia pessimistica, ma non è dato sapere se si tratti di una storia realmente accaduta. Quel che è certo, è che l’happy end questa volta l’ha scelto l’autore, ambientandolo “in quella grande stazione che i napoletani hanno reso unica, confusa, vociante, cioè napoletana, al punto che mette allegria, almeno per un attimo, pur nella tristezza della partenza.”

Sì, Napoli, la città che, con la sfrenata e contraddittoria voglia di vivere che contiene, è lo sfondo integratore – anche se non sempre esplicitato e a volte criptico – delle storie contenute nel volume di Gino Anzalone, che fruga nei destini degli amanti fino ad imbattersi in una coppia direi archetipica: Abelardo e Eloisa, il cui amore rovente nelle sue asimmetrie relazionali ha ispirato sia Dante Alighieri nel descrivere la relazione di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini che Shakespeare per Romeo e Giulietta. Ma è soltanto nel capitolo Le jeux sont faits che affiora finalmente la domanda radicale che a mio parere è alla base del poderoso sforzo di Anzalone nell’esplorare l’amore umano: la cosa più bella che l’umana compagnia di leopardiana memoria sia riuscita ad inventare. Da filosofo, Gino si chiede, quasi ad indagare il ruolo del libero arbitrio nei sentimenti umani: “Esiste dunque un fato esterno, quello degli impercettibili e insignificanti piccoli fatti che ci costringerebbe a fare nella vita cose che non avremmo fatto e che pure le danno una precipua caratterizzazione e le imprimono impreviste svolte? Oppure ci comportiamo solo apparentemente in modo passivo, tale da farci condurre per mano dagli avvenimenti, mentre inconsciamente seguiamo quello che vogliamo nel profondo del nostro animo?” E’ una domanda radicale, filosoficamente rilevante. Una di quelle domande di senso alle quali non esiste una risposta definitiva ed esauriente; domande che danno luogo se mai ad una serie di tentativi di risposte provvisorie, storiche e popperianamente falsificabili, in cui annega il pensiero umano travolto dalle emozioni.

L’analisi della vasta fenomenologia del vero Amore, che Gino scrive sempre con l’iniziale maiuscola, prosegue nel libro con una carrellata di storie tenere e struggenti, da far tornare in mente Le affinità elettive di Goethe, mentre si snoda la meravigliosa quanto sfortunata storia degli ‘innamorati per l’eternità’: i maestri di Flumeri, colleghi e confidenti per un indimenticabile anno scolastico in cui il tempo è volato, fino a quando anche le loro anime dall’asfalto della strada principale del paese sono giunte in cielo, incapaci com’erano di separarsi. Naturalmente Gino ci parla anche della pena degli amori non corrisposti, per poi rifarsi il palato con un’inaspettata citazione di Lenin che suona così: “Quando il sogno e la vita si toccano, tutto va per il meglio.” La parola Comunismo peraltro scorre in profondità nelle pagine del testo, alimentando come un fiume carsico le vene biografiche di alcuni personaggi e affiorando in superficie solo di tanto in tanto tra la dura roccia della fatica e un verde prato d’amore.

E finalmente, la storia di Annacarla nel multiverso dei Quartieri spagnoli, dove Napoli è più Napoli, svela l’indecifrabile intreccio di camorra e perbenismo in cui si cela il complesso e contraddittorio fenomeno della microcriminalità onnipresente nei bassi. L’amore di Luigi, che fa presagire ad Annacarla l’unione più perfetta che coppia umana possa sognare, s’infrange presto contro le onde di un destino cinico e baro, mirabilmente descritto con i versi di Herman Hesse nella lettera di commiato del giovane ormai morente: Tienimi per mano e stringila forte, prima che l’insolente fato possa portarmi via da te…Tienimi per mano e non lasciarmi andare mai.

Nelle ultime pagine di questo romanzo multiforme e composito, la citazione di Hannah Arendt, che adoro per la sua esaltazione dell’unicità di ogni destino umano, si mescola con una sintetica ricostruzione del processo di Norimberga, a cui fa eco un’indimenticabile canzone dell’epoca, certamente la più famosa nei paesi dei vinti e dei vincitori, la mitica Lilì Marlen. E a questo punto non ho potuto fare a meno di pensare al salotto di casa Cotone dove sono cresciuta, presso i miei nonni materni, e ad un episodio di guerra che mia madre mi raccontava.

Durante la ritirata dei tedeschi, in casa di mio nonno Fiorentino Cotone si acquartierarono alcune truppe di soldati mentre tutta la famiglia era sfollata a Tavernola Campanile. Al loro rientro, con grande meraviglia, i miei parenti trovarono sul grammofono – sistemato dal lato in tedesco – il disco di Lilì Marlen e molti bicchierini usati per sorseggiare il rosolio. Nessun oggetto di valore era stato spostato o tanto meno trafugato in tutta la casa. E così, alla fine della lettura ho trovato un meraviglioso punto di convergenza nella canzone citata da Gino Anzalone, che ha fatto da colonna musicale ad uno dei periodi più atroci della storia dell’umanità ma che ha rappresentato anche lo slancio vitale, l’elan vital, della vita che si riscatta dal male. E se ripenso alle tante storie descritte in questo libro – vere o inautentiche che siano – posso commentarle con le parole di un mio amico di Charleroi, tale Robert Waselle – incisore e pittore innamorato di Mozart e dell’Italia – che a questo punto avrebbe detto, nel suo italiano improvvisato:

“Si non è vero, è ben inventato.”

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