I libri di plastica

“L’intelligenza artificiale sta facendo passi da gigante in tutti i campi: dalla gestione e interpretazione dei big data ai chatbot e virtual assistant, dal recruiting al suggeritore di film e serie di Netflix, fino ai prossimi veicoli a guida autonoma e chissà cos’altro. Finora vi era una sorta di tabù: solo l’uomo poteva, con un mix di creatività e tecnica, scrivere una storia, una lettera, una poesia e solo un giornalista o blogger un articolo o post. E invece i progressi degli ultimi anni (vedi GPT-3), e la sperimentazione sul campo (da anni le redazioni usano algoritmi per scrivere news e articoli), permettono a chiunque di avere un (virtual) ghost writer.”

Leggo queste righe, che precedono l’annuncio sponsorizzato di un corso per scrittori e giornalisti, e provo una fitta allo stomaco e al cuore.
Ogni volta che mi ritrovo ad una tavola rotonda sull’intelligenza artificiale, che sia durante una cena conviviale, un convegno, un confronto tra colleghi, un pranzo in famiglia, e qualcuno mi aggiorna sulle opportunità che offre l’AI in ambito editoriale e umanistico, ammutolisco.

Non riesco nemmeno ad immaginare cosa possa significare sedersi alla scrivania, accendere il pc, immettere la richiesta di testo in una app dedicata e veder apparire sullo schermo un testo prefatto che riporta un pensiero elaborato, una storia, un messaggio privato, l’incipit di un libro.
So solo che, al momento, tutto ciò rappresenta per me la più grande umiliazione che una persona possa provare, se quel testo prevedeva l’espressione di un’idea, di un ragionamento, di una percezione, un’analisi. Siamo all’estinzione del termine “creatività”, alla negazione violenta, repentina, inesorabile dell’unicità e della specificità dell’intelletto umano.

Lo scenario di un mondo convertito a questo tipo di tecnologia in ambito umanistico, mi crea la stessa angoscia che provo se penso di essere rinchiusa in un bunker antiatomico del quale hanno buttato via la chiave. Provo un senso di smarrimento e di perdita di identità, una claustrofobia che pervade ogni singola parte del mio corpo e del mio stato di coscienza. La distruzione che sta provocando l’intelligenza artificiale in ambito letterario, narrativo, editoriale, non è un luogo comune, non è retorica, non è snobismo intellettuale. È emergenza.

Se entriamo in libreria e compriamo uno dei best seller primi in classifica da due anni, che continua a vendere decine di migliaia di copie, senza sapere che è stato generato da un algoritmo; se ci imbattiamo in una poesia scritta dallo stesso algoritmo; se sulla prima pagina di un quotidiano leggiamo un editoriale realizzato dalla A.I per creare l’”effetto wow”, come ci sentiamo quando scopriamo che è tutto “deepfake”?

Questa è la domanda alla quale non riesco a dare una risposta, forse perché non voglio darla e ho paura delle risposte degli altri.
So già a cosa state pensando: che sono antica, noiosa, anti-tecnologica, incapace di vedere il bicchiere mezzo pieno in un’opportunità che può facilitare, convenire, agevolare o, in una visione ancora più ottimistica, sorprendere e riservare piacevoli sorprese.
Sicuramente in un testo generato da un algoritmo qualche sorpresa si trova: qualche pensiero originale, una logica, uno stile, una tecnica nuova, una narrazione coinvolgente. Ma chi se ne importa????!

Che cosa siamo se ci tiriamo indietro, se lasciamo che l’algoritmo pensi per noi? Scegliamo l’algoritmo per convenienza, per pigrizia, per essere sicuri di colpire nel segno, per desiderio di approvazione e di accettazione?
Che cosa siamo se ci priviamo della fatica di elaborare un pensiero nostro, di approfondirlo, di scavare in noi stessi, di metterci alla prova? Che cosa siamo se cerchiamo scorciatoie anche nell’unica cosa che non ha prezzo: la nostra creatività e la nostra unicità?

La nostra capacità di comporre o elaborare pensieri e idee, dal più semplice, come un messaggio, al più complesso, come un libro, non ha il diritto di estinguersi. È vietato.

La legge che vieta di non pensare, purtroppo, non esiste. Ma nemmeno quella che vieta di pensare.
Possiamo salvarci decretando e divulgando la legge del “vietato non pensare” facendo leva sulle nostre coscienze, sulle nostre intenzioni, sul nostro “io narrante” che si rifiuta di arrendersi e che ha il dovere di continuare ad opporsi allo svilimento delle idee e dell’impegno umano.
Un libro scritto con l’intelligenza artificiale è un libro di plastica, un soprammobile kitsch e il “virtual ghost writer” non può vincere il Premio Pulitzer.
Non glielo possiamo permettere.

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