La filosofia a salvaguardia dell’umanità

Non saranno certo le svariate migliaia di volumi polverosi e sbiaditi dal tempo, stipati negli scaffali delle biblioteche sotto la voce FILOSOFIA, a salvare il futuro dell’umanità. No, non temete. Non saremo obbligati a leggerli, almeno non tutti. E tanto più, nessuno ci impone di tornare sui percorsi della storia della filosofia, al tormentone dello sviluppo del pensiero che nelle aule liceali ci veniva presentato mentre si snodava da una mente all’altra dei pensatori tra critiche e contraddizioni – tesi antitesi sintesi – che finivano per convogliare gli auspici di comprensione degli studenti verso l’ambita meta della fine dell’anno che finalmente avrebbe messo tutti a tacere.

La nostra proposta è per una filosofia DE-TOX, disintossicante e liberatoria, tale da eliminare le tossine della banalità del male e del finto bene, le ipocrisie, gli opportunismi, i giudizi affrettati e superficiali, i sovranismi e i populismi, le invidie, le saccenterie, gli esibizionismi, le tristezze inconsolabili dell’egocentrismo e la solitudine perniciosa dell’autoreferenzialità. Praticamente un miraggio (l’ennesima utopia?) o forse addirittura un miracolo. E ora che mi sono abbondantemente compromessa, mi si chiederà come questo miracolo possa avvenire. Così mi tocca provare a rispondere, sperando di non ingenerare nuove false credenze, aspettative improprie, goffi tentativi di vincere la depressione che ci attanaglia attraverso illusioni di salvezza a buon mercato.

La strada da percorrere, peraltro già intrapresa in sordina negli ultimi decenni da gruppi di studiosi in varie parti del mondo, fino a trasformarsi di recente in proposta didattica finalmente accolta nei circuiti accademici e anche dal MIUR, è quella di puntare sull’esercizio di pratiche dialogiche di riflessione filosofica come baluardo contro il duplice rischio dell’oscurantismo e dell’estremismo, come laboratorio di nuovo umanesimo e cooperazione emotivo/cognitiva tra le generazioni di tutte le culture. In questo percorso si celebra l’imprescindibile – diremmo genetico – legame tra filosofia e democrazia: filosofia come autocoscienza (l’imperativo socratico) ed esercizio di rigore logico che struttura il pensiero; democrazia come dialogo cooperativo aperto alla dialettica identità/alterità, che dispone alla convivenza civile e alla pace.

Il nostro è un tempo di privazione (Heidegger 1974) in cui si è assistito al crollo delle filosofie sistematiche, alla caduta delle visioni del mondo, al rifiuto dei saperi universali e della stessa ragione che di quelli era strumento, ma insieme – o di conseguenza – hanno fatto irruzione nuovi saperi. La filosofia dunque oggi deve diventare plurale ed interculturale. Diremmo dunque con una battuta che siamo… diversamente filosofi? Non mi pare, perché utilizziamo lo strumento che fu prima dei Sofisti e poi di Socrate: l’ermeneutica del dialogo. L’attualità delle filosofie antiche è nella loro pluralità e ricchezza di dissonanze; attraverso il dialogo noi vogliamo tentare di interpretare il presente e disegnare il futuro con modalità antiche, simili a quelle che allora provocavano domande paradossali ma anche risposte aperte che ancor oggi fanno riflettere.

Qualcuno a questo punto si starà chiedendo da dove può iniziare un tale itinerario, che si prospetta così promettente; come e con chi intavolare questo dialogo. Se pensiamo ad un percorso essenzialmente teoretico, sganciato dalla realtà (diciamo pure) fenomenologica, rischiamo di impegolarci in disquisizioni formali, interessanti per gli studiosi e i dottorandi, ma con scarse ricadute sulla qualità della vita. Il mio sommesso consiglio è quello di sostituire in prima battuta il verbo ‘pensare’ con songer, che in un’accezione semantica squisitamente francese vuol dire certo anche pensare, ma indica soprattutto perseguire un sogno, delineare un progetto riferito alla propria vita. La nostra espressione ‘sognare ad occhi aperti’ non indica la stessa cosa, se si riferisce ad un’evasione dalla realtà che all’istante può anche gratificare ma rischia di creare uno scarto, un non-senso, un’ambiguità tra noi e la vita. Songer come intravedere un’utopia e perseguirla con leggerezza: questo sì, mi sembra molto più appropriato.

Si dirà che il pensiero filosofico vive dello scarto: è antidogmatico per natura, rivela il limite, trova sempre qualcosa che zoppica e un risultato che non torna. Il pensiero filosofico è sempre incompiuto, mai pacificato. Perciò la filosofia è un’amica ingenerosa, che toglie più che dare. Ma è proprio nello scarto del togliere che imprime la giusta direzione alla ricerca. Perché lo scarto non sempre è una perdita: più spesso è una scoperta (Maurice Merleau Ponty, Senso e non-senso, 1966- opera postuma).

Se proviamo a mettere insieme in una reazione chimica l’utopia e lo scarto, troveremo probabilmente il senso del limite delle cose umane: quella consapevolezza che rende inquieto il saggio e lo fa morire incompiuto, ma probabilmente felice di contemplare l’infinito dalla soglia del proprio limite. Ma in quella reazione chimica c’è l’Io, il Me, che agisce ed ospita la complessità, la contraddizione degli ideali e la delusione, insieme allo slancio vitale e alla forza dell’amore (di quell’amor, quell’amor che è palpito dell’universo intero. Misterioso, altero, croce e delizia al cor… Per favore, adesso non dite: ‘che c’entra Verdi?’). Senonché l’Io, la mia identità, non si istituisce senza la relazione reciproca con il Tu, con l’alterità che gli è sempre compresente e nell’incontro statuisce la comunità del Noi. Al di fuori di questi passaggi comunicativi, esistenziali reali palpabili, non è ipotizzabile alcun autentico dialogo democratico né tanto meno la (sia pur minima) ricerca filosofica.

Dietro al sipario di una razionalità che sogna sempre nuovi ed impegnativi traguardi etici e teoretici, le emozioni si affacciano a colorare i sentieri del confronto dialogico nel momento della cura. Per Martin Heidegger (Essere e tempo) è la cura che rivela l’esistenza, in quanto l’essere è creato dalla cura. Prendersi cura di sé e dell’altro nella dialogicità filosofica è la dimensione fondamentale dell’esistenza, che si esprime nel favorire la crescita e la piena autorealizzazione della persona, secondo l’impareggiabile lezione dell’I CARE esposta da don Lorenzo Milani nella scuola di Barbiana. E quale premura più efficace può darsi per l’umanità, se non la tensione del pensare insieme gli interrogativi radicali dell’esistenza nella maieutica reciproca della comunità di ricerca? Può darsi che quella che vi propongo sia una filosofia artigianale, perché non richiede particolari prerequisiti culturali per essere praticata nei Café Philo come nei laboratori dialogici, nelle carceri come nelle aule di una scuola primaria o secondaria, ma di sicuro si rivela efficace per spingere l’interrogarsi fino all’estremo limite della radicalità delle domande di senso.

La nostra società si va depauperando sempre più in un pauroso spreco di potenziale educativo, che lascia per sempre ignoti – e perciò indicibili – i pensieri di tante persone private di cura, cui è negato ogni diritto al successo formativo, ogni opportunità di praticare quella pensosità che aprirebbe a loro e a noi un orizzonte ben più vasto di consapevolezza di Sé e della realtà. Non è dato conoscere (perché quasi nessuno se ne occupa) i pensieri dei migranti, dei ragazzini nelle favelas o nelle periferie degradate, né quale possa essere la proiezione dei loro Sé possibili nella prospettiva di progetti di vita troppo spesso stroncati sul nascere. Prendersi cura della loro formazione, con azioni etiche e geopolitiche di valorizzazione dei talenti nascosti in queste esistenze scartate, rappresenterebbe la vera svolta culturale e antropologica in grado di rinnovare i destini dell’intera umanità dopo la solenne lezione inferta al mondo dalla pandemia.

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