La pace passa per un murale

Si fa presto a dire Pace. Se tutte le parole dette, scritte, proclamate, urlate nella storia dell’umanità sul tema della pace avessero prodotto un minimo di effetto ora non saremmo certo a questo punto in Libia, in Etiopia, in Myanmar… E’ anche vero però che non ci è dato sapere che cosa sarebbe stato dell’umanità se nessuno avesse predicato prima d’ora l’utopia della pace con parole ed atti temerari, benché in gran parte rimasti misconosciuti se non vistosamente contraddetti. Avrete certamente compreso che non sto parlando di pace in senso generico, soltanto come assenza di guerra, perché almeno in Europa – dopo l’assurdo massacro dei due conflitti mondiali – stiamo facendo passi significativi da settantacinque anni a questa parte per l’integrazione dei popoli e delle culture. Penso piuttosto alla pace nell’accezione che assume nella lingua e nella cultura ebraica, in cui Shalom, più che assenza di guerra, vuol dire compiutezza, autorealizzazione personale felicemente e stabilmente raggiunta. Shalom è anche il saluto, l’augurio che gli israeliti osservanti si rivolgono incontrandosi. E’ forse anche l’auspicio che l’autorealizzazione personale possa contribuire a creare un nuovo equilibrio sociale, abolendo il disordine in favore di un assetto nuovo e più umano delle relazioni, tale da offrire a ciascuno la possibilità di diventare compiutamente persona. E’ l’augurio che esprime Martin Buber nel ripetere accoratamente: “Uomo, diventa ciò che sei”, sperimenta la tua singolarità. Il mondo sta aspettando il tuo contributo unico e insostituibile, non farglielo mancare: senza di esso sarebbe certamente più povero.

Spesso tuttavia nella storia individuale e comunitaria si è portati a confondere il concetto di persona con quello di individuo, l’autonomia di pensiero con l’autarchia, l’umanesimo con l’apprensione per sé. Non c’è dubbio che, nella sua versione esasperata, l’esaltazione dell’autosufficienza e dell’indipendenza soggettiva conduca all’indifferenza nei confronti della vita altrui e della comunità, al colpevole disimpegno nella società e nello spazio pubblico. Il rischio in questo caso è che ciascuno diventi estraneo, indifferente nei confronti dell’altro. Fondati come sono sulla struttura dell’Io e dell’Altro, le Dieci Parole della teologia ebraica (per i cattolici i Dieci Comandamenti) si contrappongono ad una felicità solipsistica e smentiscono che l’individualismo possa essere fonte di serenità e benessere. Il senso del messaggio biblico è che l’idea di felicità è totalmente legata alle relazioni in un clima di reciprocità e al riconoscimento del valore dell’altro, considerato anche nella sua diversità problematica. Non c’è alcuna alternativa etica a questa posizione. Tertium non datur. Al di fuori della cooperazione tra gli uomini, c’è solo la guerra di sopraffazione originata dalla brama di potere dell’homo homini lupus e dal desiderio di supremazia, atteggiamenti che – nella loro conflittuale esasperazione – sfociano inevitabilmente nella distruzione e nella morte.

ASCOLTA, MI DISSERO CHE NON ESISTEVI
… Lo scritto che segue pare sia stato trovato sul corpo di un soldato americano morto in combattimento in Italia nella “battaglia di Anzio”, che seguì allo sbarco delle truppe alleate durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma anche se non si trattasse di un documento autentico, sarebbe stato ben inventato per esprimere i sentimenti di un soldato al fronte, simili a quelli che Fabrizio De André descrive mirabilmente nella celebre ballata La guerra di Piero.
Ascolta Dio, non ti ho mai parlato, ma ora voglio fare la Tua conoscenza. Sai, mi dissero che Tu non esistevi, ed io, come uno sciocco, l’ho creduto. La notte scorsa, dalla buca di una bomba, ho visto il Tuo cielo; ho compreso allora che mi avevano detto una bugia. Se mi fossi fermato a guardare le cose che Tu hai create, avrei capito che mi ingannavano. Mi chiedo ora, Dio, se mi accetterai; nonostante tutto sento che mi comprenderai. Curioso, dovevo venire in questo luogo infernale per trovare il tempo di vedere il Tuo volto. Non mi sembra ci sia ancora molto da dire ma, Dio, sono sicuro di averti incontrato oggi e sono felice. Credo che l’ora X stia per scoccare, ma non ho paura perché so che Tu sei vicino. L’allarme: ecco, Dio, devo andare. Mi piaci immensamente, voglio che Tu lo sappia. Ascolta, questa sarà una battaglia tremenda e chissà, forse verrò nella Tua casa questa sera stessa. Anche se non sono mai stato Tuo amico prima, mi chiedo, Dio, se mi attenderai alla porta. Guarda, piango. Io in lacrime? Come avrei voluto conoscerti in tutti questi anni! Ebbene, ora devo andare. Arrivederci Dio. Strano, da quando Ti ho incontrato non ho più paura di morire.

Questo giovane soldato, vero milite ignoto, potrebbe essere uno dei tanti volti dipinti nel grigiore della morte, riversi in terra in una fossa comune realisticamente rappresentata negli anni Sessanta nel Murale della Pace da un ragazzo avellinese all’epoca pressappoco suo coetaneo, oggi artista ampiamente affermato in campo mondiale: il Maestro Ettore de Conciliis. Sì, perché ad Avellino l’orrore della dittatura e l’aspirazione alla libertà passarono – vent’anni dopo la Liberazione del 25 aprile 1945 – per questo affresco, Il Murale della Pace per l’appunto, che occupa tutta l’abside della chiesa di S. Francesco al Rione Ferrovia. Mi piacerebbe sapere quanti nostri concittadini – specie giovani e giovanissimi – lo hanno visitato, dal momento che in città non c’è mai stata (a memoria mia) neppure la minima segnaletica turistica che indicasse quest’opera del geniale artista nostro concittadino, ritenuta a buon diritto una delle più importanti produzioni della pittura contemporanea italiana. Sporadiche, meritevoli iniziative hanno sì periodicamente interessato il Murale in coincidenza di anniversari o varie celebrazioni, per l’impegno della parrocchia stessa o di qualche benemerita associazione o istituzione scolastica, ma senza incidere più di tanto sugli interessi culturali e sul senso etico/estetico di molti cittadini irpini, tuttora inconsapevoli della presenza sul territorio di un’opera d’arte di tale portata.

Il Murale della Pace fu commissionato nel mese di maggio 1964 dal parroco don Ferdinando Renzulli al giovanissimo pittore ed è il frutto di oltre un anno di lavoro, protrattosi fino ad ottobre 1965, svolto da Ettore de Conciliis con Rocco Falciano (morto nel 2012) presso lo studio dello scultore Marino Mazzacurati in Roma. Alla sua inaugurazione, avvenuta il 23 ottobre 1965 con un memorabile discorso dello stesso Mazzacurati, il Murale della Pace provocò un dibattito con accese contestazioni per l’innovativa interpretazione e per la rottura degli schemi tradizionali dovuta ad una rappresentazione iconografica ritenuta inopportuna nei locali di una chiesa. Il Concilio Vaticano II, con i suoi fermenti di rinnovamento, si sarebbe concluso meno di due mesi dopo, l’8 dicembre 1965, ma i tempi erano ancora acerbi perché lo strappo con un’inveterata tradizione preconciliare potesse venire compreso ed apprezzato da tutti. Come scrisse la storica dell’arte Marina Pizziolo, “per la prima volta in un luogo di culto la pace viene celebrata dipingendo anche gli spettri della guerra: bombardamenti, uomini impiccati, morti”. Peraltro, l’aver rappresentato tra la folla figure di intellettuali e politici dichiaratamente atei o lontani dalla cristianità, faceva apparire l’opera ai benpensanti come provocatoria e inidonea ad un luogo sacro. Ci furono ostilità, pareri discordi e dure reazioni sulla stampa locale e nazionale, al punto che le critiche coinvolsero anche don Renzulli e il vescovo Venezia. Noti giornalisti di orientamento conservatore insieme alla parte retriva della gerarchia ecclesiastica colsero l’occasione per attaccare la posizione della Chiesa conciliare, che nel frattempo sperimentava il pacifismo di padre Balducci e la grande utopia pedagogica di don Lorenzo Milani, che proprio in quegli anni – già gravemente minato nella salute – scriveva con i ragazzi di Barbiana le pagine più nobili di un’educazione alla cittadinanza, rivolta agli ultimi e agli esclusi da una scuola in cui il successo formativo era riservato ai figli dei signori. Al colmo delle polemiche, dovette intervenire personalmente Paolo VI per dirimere la questione, ricevendo de Conciliis in udienza privata per i chiarimenti del caso. Seguirono prontamente, il 30 ottobre 1965, un articolo in favore del parroco sul Corriere dell’Irpinia a firma del direttore Angelo Scalpati – sindaco di Avellino – dal titolo: “Don Ferdinando alla sbarra” e un altro di Peppino Pisano intitolato “Un poetico inno alla pace l’affresco del De Conciliis”. Sulla stessa pagina comparve la copia di una lettera della Segreteria di Stato di Sua Santità del 22 ottobre con gli auguri di papa Montini ai pittori. Qualche giorno dopo, sul periodico Il progresso irpino, apparve una recensione datata 1 novembre del prof. Federico Biondi dal titolo “Un affresco per la pace”, che contribuì a fa affluire nella chiesa un gran numero di visitatori.

L’utopia della pace si irradia ancora oggi potentemente dall’avvolgente scenografia del Murale, dalla cui parte sinistra spicca – tra gli orrori della guerra e gli eroismi della Resistenza – la figura di Pio XII affranto per le bombe che piovono senza sosta dal cielo di Roma sul popoloso quartiere di S. Lorenzo. Non si riconoscono elmetti o divise militari, perché la condanna è per tutte le guerre, anche se qualche figura in basso mostra chiare connotazioni riferibili ai nazisti e ai fascisti. In alto a destra svetta la figura ieratica del S. Francesco di Cimabue, cui guarda speranzoso il popolo appena liberato. Si tratta di contadini meridionali, braccianti irpini protagonisti dell’occupazione delle terre, preti del Vietnam, campesiňos dell’America latina. Sono i ‘costruttori di pace’ cui faranno appello i documenti conciliari del Vaticano II: i popolani, gli umili e gli affamati di tutto il mondo, tra bandiere e cartelli evocanti battaglie di libertà e di giustizia. Alcuni cartelli sono stati volutamente lasciati in bianco, perché lo spettatore possa idealmente aggiungere al presente il suo personale messaggio. Se volete sapere che cosa scriverei io su uno di quei cartelli, vi accontento subito: I CARE, la famosa frase di Don Milani che rivela la necessità di fare della vita un impegno radicale. Niente altro che prendersi cura, come raccomanda anche Franco Battiato. Ma torniamo al Murale. In quella compresenza di varia umanità e ideologie, è possibile individuare alcuni volti che hanno fatto la storia politica e culturale della prima metà del XX secolo, tra cui papa Giovanni XXIII, John F. Kennedy, Mao Tse Tung, insieme ad intellettuali e personaggi di spicco del mondo cattolico e della sinistra laica e marxista, come Pasolini, Scotellaro, Moravia, Picasso, Argan, Dorso e Pavese. Tra la folla è riconoscibile l’autoritratto dell’autore, oltre all’immagine del vescovo della Diocesi di Ariano, Pasquale Venezia, già parroco della chiesa di S. Francesco.

Un ultimo sguardo d’insieme dell’opera restituisce un messaggio di speranza nella figura di una donna incinta che, rivolta alla folla che inneggia alla pace, guarda ad un futuro di ricostruzione e progresso. Il messaggio non potrebbe essere più esplicito, anche per chi – come noi – in questo momento sta vivendo in un clima di ripresa e resilienza.

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