Il mito di Narciso come archetipo narrativo

Nell’epoca dell’oralità primaria, prima dell’invenzione della scrittura, il racconto mitologico svolse contemporaneamente le funzioni di rappresentazione simbolica e memorizzazione collettiva, in un’incessante reiterazione di significati e ricordi. Ed è in questa prospettiva che si può rinvenire la sua rilevanza filosofica, che oggi lo rende un prodotto culturale fruibile a scuola anche per i laboratori di filosofia dialogica, soprattutto in presenza di adolescenti. Infatti la struttura del mito ospita al suo interno gli archetipi individuati da Fromm (1978) come elementi essenziali di un linguaggio dimenticato, cui tuttora la memoria umana tende inconsapevolmente a far riferimento con accorata nostalgia: il mare come emblema del sentimento d’amore; la luna, simbolo di una femminilità intrigante e cinerina; il sole, icona della regalità e della potenza vitale, ecc. Ben poche narrazioni moderne sono caratterizzate da una pregnanza simbolica tale da provocare un’analoga risonanza nell’esperienza emotivo-cognitiva di persone appartenenti a diverse culture. Per tutti questi motivi, mi capita spesso di utilizzare la lettura di vari miti come incipit nelle sedute laboratoriali di filosofia personalista e dialogica.

Per conferire maggiore esemplarità al racconto, forse sarà opportuno narrare l’esperienza diretta di una mattinata laboratoriale di alcuni anni fa presso l’Istituto comprensivo ‘Sabatini’ di Borgia, sulla scorta di un report di Chiara Milano che la descrive con notevole efficacia. Il nostro ‘essere in pensiero’ prende le mosse proprio dalla lettura del mito di Narciso, così come lo riporta Ovidio in Metamorfosi, libro III. Insieme agli studenti di terza media non leggiamo un riassunto e neppure una puntuale parafrasi, ma la traduzione fedele del testo del poeta latino per immetterci meglio in quell’atmosfera di spaesamento culturale cui conducono le frasi e i toni aulici propri del linguaggio letterario dell’antichità.

Nell’incipit, il laboratorio prevede la lettura ad una sola voce (la mia) per proporre ai ragazzi di affidare il pensiero alle immagini che il racconto poetico custodisce – vela e svela – dischiudendole. Segue una nuova lettura corale: un pezzetto per ciascuno, perché il testo si immetta nel circuito della comunità dei dialoganti come protagonista e insieme ospite dell’avventura che il pensiero ha appena intrapreso. Così la narrazione si rifrange in parti che ogni dialogante riceve ed accoglie restituendole agli interlocutori, mentre, senza che se ne abbia piena coscienza, il riflesso delle immagini custodite, celate e dischiuse dal racconto diviene molteplice e rende più appariscente il contrasto con la sensibilità di chi legge e ascolta… Ed eccoci alle ultime parole del testo: la fase della lettura sta per giungere alla conclusione. Si susseguono ancora attimi di spaesamento e silenzio. Non si avverte solo la timidezza negli studenti, ma anche un moto di distacco: un bisogno di difendersi restando al proprio posto, un tentativo di mantenere la propria posizione piuttosto che affidarsi al flusso del dialogo che chissà dove andrà a parare … In ogni caso, a lettura finita, l’aula si è riempita di immagini ed è gravida di suggestioni, mentre l’impatto del testo con il sentire di ognuno è come sospeso e trattenuto dalla forza della razionalità. Cerco di zumare su alcune immagini, inquadrando una ad una le tante sfaccettature che questo mito presenta, in cui sovrasta la siderale solitudine di Narciso. I ragazzi sono in grado di percepirla e da qui il pensiero, con tutta evidenza, salpa e conduce ad esplorare il dramma del protagonista, mettendo a fuoco la sua condizione di soggetto gettato nella storia che lo ha reso celebre nei secoli, rivelando in lui una delle tante icone che riflettono l’eterna fisionomia dell’uomo: un vero e proprio archetipo del sentimento della vita.

A questo punto, la riflessione del gruppo pone in primo piano il problema della sussistenza del Fato nella cultura greca e del suo ruolo nel determinare il destino dell’uomo. La visione appare spontanea, tanto è naturale il modo in cui il pensiero condiviso tra i dialoganti la crea. Il gruppo-classe si è ormai costituito in comunità di ricerca e tutti noi siamo disposti ad interrogarci vicendevolmente su che cos’è il destino: coincidenza, predestinazione, casualità? I ragazzi si perdono in questa domanda radicale e, mentre le danzano intorno, l’idea di destino che affiora e prende forma è in bilico da una parte tra il concetto greco – tramandato dalla storia e acquisito tra i banchi della scuola – di una potenza esterna all’esistenza del singolo cui soggiacciono perfino agli dei: una forza che interviene nella vita, determinandola senza possibilità di cambiarla; mentre dall’altra parte affiora il sentimento postmoderno – che probabilmente di quell’idea è il distillato – del destino come forza intrinseca all’esistenza del singolo e impressa nel suo profilo identitario. Sul finale della seduta laboratoriale è questa la dinamica che sembra prevalere nei giudizi dei ragazzi, tra il serpeggiare di una sorta di palpabile inquietudine. Si fa strada infatti la consapevolezza che la libertà personale e la forza della volontà di autocoscienza delle proprie inclinazioni ed aspirazioni siano le cause remote delle azioni poste in essere. Queste ultime, man mano che si attuano, costruiscono e rivelano l’identità, dando vita alla capacità sorgiva di divenire ciò che si è, perfino quando la reale sequenza degli avvenimenti della storia biografica la contraddice e mortifica.

Nel focalizzare ulteriormente l’attenzione, la condizione di Narciso viene intuita e riproposta come quella di chi aderisce al proprio vissuto in termini di fedeltà ad un ineluttabile, tragico destino di dolore e morte imposto dal Fato. Su tale sfondo, il pensiero dei ragazzi prende consapevolezza di questa fedeltà come forza del Sé. Il destino-fato, allora, appare come una potenza interiore che blocca la capacità di trasformarsi, circoscrive la possibilità di autodeterminarsi e annienta ciò che ragionevolmente e positivamente Narciso potrebbe volere per la propria vita. Il ragionamento dei ragazzi mette a fuoco prima la vaga sensazione e poi il concetto che la fedeltà al proprio destino – così intesa – è fedeltà al passato, al già noto, a tutto quanto nega ogni tentativo di cambiamento e di resilienza. L’interazione dialogica che segue queste riflessioni chiarisce come tale fedeltà si esplichi a spese di ogni possibilità di autonomia e a dispetto di qualsivoglia lavoro interiore, inteso come preziosa ed autentica occasione di miglioramento di sé stessi e della propria vita a partire da una personale presa di coscienza degli errori di valutazione, delle lacune caratteriali e delle azioni sbagliate eventualmente compiute.

D’altro canto, però, Narciso non può essere percepito come soggetto attivo nell’aderire al suo destino, in quanto non è in grado di assumersi alcuna responsabilità, come si evince anche dal naufragare dei reiterati, disperati sforzi della ninfa Eco, ridotta al ruolo di imitatrice seriale ed ecolalica delle altrui parole, nel vano tentativo di instaurare con lui un rapporto di amore. E questo perché Narciso è davvero gettato in qualcosa di più grande di lui, di inesorabile, che lo rende sordo all’empatia, irriducibilmente chiuso ad ogni moto dell’animo che prescinda dall’autoreferenzialità della sua persona. Ciò lo rende impotente ed inerme, facendogli avvertire come vano ogni volere, insieme all’illusione di una possibile libertà. Parte di qui un’insolita riflessione degli studenti che tenta di contestualizzare nell’attualità dei rapporti internazionali l’atteggiamento narcisistico, spostandolo dal mito alla realtà della situazione che all’epoca si stava delineando nella geopolitica al cospetto del fenomeno del terrorismo dell’Isis. Si fa strada, in particolare, la pretesa di una spiegazione dell’orrore e della violenza, perché nei ragazzi non c’è amor fati che tenga, ma volontà risoluta di cercare possibili soluzioni per un’efficace e definitiva risoluzione pacifica della questione.

La riflessione comunitaria nel suo vagare impatta tutto questo e si posa sulle urgenze emotive più viscerali dei ragazzi di oggi, assumendo la fisionomia commovente di una ribellione al presentimento della propria impotenza di fronte agli avvenimenti della geopolitica, mostrando il profilo di questa ribellione come un’implicita richiesta di aiuto. In realtà i ragazzi chiedono che l’agire dell’uomo sulla scena del mondo abbia all’origine un’assunzione di responsabilità, perché il principio di responsabilità – in quanto regola imprescindibile dell’agire – possa oggi porsi come il presupposto della loro fiducia nell’adulto, in cui hanno un estremo bisogno di credere per crescere. Ma a questo punto forse è meglio lasciare la parola alla redattrice del report:

Quanto ho scritto è un tentativo di rintracciare solo alcuni dei percorsi in cui si è dipanata la riflessione filosofica all’interno del processo dialogico che ha avuto come protagonista la comunità di ricerca formata da gruppi di ragazzi di terza media dell’Istituto Sabatini di Borgia, in occasione del laboratorio ‘Filosofando con il mito’ condotto dalla professoressa Mirella Napodano. Aimè, ho censurato molte, moltissime cose…

Nell’avviarmi alla conclusione, mi preme ancora qualche riflessione. Ovidio racconta in questo testo ’provocante’ la vicenda esistenziale di Narciso, nella quale è tratteggiata una delle immagini cui i Greci affidarono la loro visione della vita. L’aggettivo scelto allude, in ultima analisi, alla capacità del poeta di far brillare la forza dell’archetipo Narciso che, durante il laboratorio, prende vita nel flusso del pensiero da esso stesso originato. Tale processo ha del meraviglioso! L’archetipo, con tutto il suo potere maieutico e autentico carisma educativo, che poco o nulla ha a che fare con il tecnicismo di obiettivi didattici, suscita, come mi confida la professoressa a fine laboratorio, suggestioni impreviste quanto legittimamente attese e capaci di rivelare sempre una loro coerenza tanto più profonda e densa quanto più nascosta …

Il punto è non nutrire aspettative preconfezionate e non avere mete prestabilite che fungano da orientamento e metro di valutazione dell’attività di pensiero che si sta svolgendo. Condurre il laboratorio, quindi, è un atto di fede utopica e sincera, una sospensione del giudizio, una pratica di ascolto, un esercizio di saggezza … Nell’attesa che il pensiero fluisca e mentre assiste al suo fluire, la Napodano è rispettosa del processo in atto e attende – con il suo ‘non sapere’ – dove condurrà il flusso del pensiero. La comunità dei dialoganti la accoglie e la riconosce come compagna nell’avventura del pensare. Attraverso di lei, ogni membro del gruppo sperimenta un sentimento di fiducia nel pensiero stesso, come processo individuale che però prende vita e si compone all’interno di una comunità. Qualunque idea venga concepita, a partire dalla provocazione del testo o dallo stimolo ricevuto dall’ascolto degli altri, è pensiero e, in quanto tale, richiede riflessione e creatività.

Sta come ‘colui che osserva il mare’chi conduce il laboratorio mentre ascolta i ragazzi … Le parole del dialogo filosofico sono onde che incantano e meravigliano, in quanto custodiscono e incarnano il mistero e la vitalità del pensiero che, come il mare, è diverso ma appare sempre lo stesso. Che, con il mare, condivide il senso profondo del divenire che è sempre un tornare a casa, un abitare la propria autenticità, un dimorare presso la propria connessione con l’infinito. Connessione che non necessariamente si fa confessione religiosa, ma è certamente, e questo laboratorio lo ha testimoniato, una forma di spiritualità, un sentimento del divino e del sacro.

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