“IO BALLO DA SOLO”

Quando ero bambina, c’era uno zio irpino molto speciale che per anni fu il regista di giochi, svaghi, sfide ed esperimenti di un gruppo di bambini alla ricerca di emozioni forti in mezzo alla natura.
Lo zio Raf non si stancava mai di stupirli e di sorprenderli, non perdeva occasione per inventarsi gite ai torrenti dove dava lezioni di storia naturale. Quei bambini, come lui, vivevano in città e trascorrevano le lunghe vacanze estive con mani e piedi nella terra, nell’acqua, sotto il sole della verde Irpinia.
Tornavano alla grande casa della nonna con ranocchi, girini, vermicelli e pesci rossi e l’orto rigoglioso faceva da scenografia alle loro performance di piccoli contadini scienziati.
Lo zio era un signore elegante e distinto, appassionato di campagna, di musica, di aforismi e di bambini, con i quali aveva un feeling decisamente speciale. Oggi è ancora così.
Classe 1933, a 17 anni lasciò l’Irpinia per la vita militare e, come tanti giovani del Sud, successivamente fece fortuna a Milano. Mise su famiglia e diventò un impeccabile funzionario di banca lodato e stimato per le sue numerose doti e capacità. “Corretto, preciso, disponibile, scrupoloso, intraprendente, collaborativo, creativo” sono solo alcuni degli aggettivi attribuitigli ufficialmente su un documento “rubato” dagli archivi dell’ufficio del personale prima di andare in pensione. Una vita di sacrifici ripagati da un’Italia che cresceva, macinava, produceva e gratificava il merito.

Negli anni ’70- ’80 lo zio Raf coltivava un orto a Milano. Lo faceva in compagnia di amici e colleghi presso campi comunali, ricavandosi spazi durante il fine settimana o dopo il lavoro. La sua era una passione pacata e garbata, gestita con meticolosità. Racchiudeva l’essenza del suo essere.
I nipoti e le sue due figlie crebbero, portando sempre con sé il ricordo delle rane, dei torrenti e dei girini. Quando maturò l’età della pensione, decise di tornare a vivere in Irpinia con la moglie e la suocera.
Sono trascorsi diversi anni da quando lo zio Raf si è tolto la giacca e la cravatta, ma non ha mai perso l’eleganza, i modi cordiali e i gesti generosi nei confronti della sua piccola grande comunità di parenti e di amici.
L’Irpinia lo ha riaccolto e lui ha ripiantato orto e radici in una terra mai dimenticata, ma allo stesso tempo lasciata al suo destino, mentre si costruiva il suo futuro. Oggi è ancora lo zio di tutti quei bambini divenuti adulti, compresa me, ed è un nonno amatissimo.
Il suo racconto si intensifica e i suoi occhi si illuminano quando gli chiedo come è stato e come è per lui vivere questo momento di pandemia, di crisi, di incertezze e di paure, dal suo mondo “bucolico” in un paese del Sud.
“Mi sento protetto, non ho avuto paura e non ho paura perché la mia vita qui è scandita da gesti quotidiani semplici e lontani dalla vostra realtà. Mi alzo tra le quattro e le cinque del mattino, faccio colazione e me ne vado in “ufficio” nel mio orto.”
A proposito di ufficio, gli ho chiesto se gli manca e cosa c’è di diverso tra la stanchezza di una giornata di lavoro con macchine, telefoni e tecnologia e una mattina trascorsa con stivaloni, zappa e attrezzi in mezzo ai miracolosi e inediti – per dimensioni e sapore – prodotti della terra che nascono dalla sua arte botanica.
“Per me andare nella terra è come andare a ballare. Non sento la fatica, lavoro come se danzassi, mi sento libero e volo con la testa. Qualche volta ascolto musica e quando rientro in casa scrivo. Faccio pace con me stesso e con il mondo e, oltre a coltivare la terra, coltivo pensieri positivi. Io ballo da solo! E poi, oltre a raccogliere i frutti del mio lavoro, faccio felici amici e parenti che apprezzano e si deliziano con prodotti super biologici”.
Durante il lockdown il suo orto è stato il suo vaccino. Mentre fuori il pianeta si fermava, si ammalava, crollava su se stesso, lui non ha mai interrotto il suo ciclo vitale grazie al suo impegno con la terra. Si è reso conto che il nemico invisibile è potente e micidiale di fronte alla vita complessa, strutturata, mobile, frenetica, mentre su di lui non è stato così facile attecchire.
“Alla luce di tutto ciò che sta accadendo, sono felice di ritrovarmi qui alla mia età in questa situazione delicata. Nonostante i limiti di questi luoghi, non sempre ben gestiti e valorizzati, sento di essere nel posto giusto. Sarebbe bello, quando tutto sarà finito, veder arrivare tanta gente in questa parte di Italia che merita di più.”
Lo zio Raf mi mostra la sua raccolta di fotografie e di aforismi, i suoi diari, i suoi album e rimango colpita da un’immagine anni’60 rappresentante una Jeep del 1921 e un blindato dell’esercito italiano uguale a quello che lui guidava quando era alla scuola militare in Puglia.
“Vedi, questi sono i mezzi che imparai a guidare e che servivano durante le esercitazioni, dato che ormai la guerra era finita. Arrivarono dagli Stati Uniti e noi negli anni ’50 imparammo a utilizzarli per difenderci in caso di attacchi ed eventuali nuovi conflitti”.
Zio Raf racconta tutto con il sorriso, con la consueta delicatezza e pacatezza che lo contraddistinguono da sempre e conclude:
“Cara Anna, questi mezzi super pesanti, super blindati, che terrorizzavano solo a guardarli, non sono nulla di fronte al mio orto, alla mia musica, alle mie frasi che mi hanno protetto e che mi proteggeranno ancora dal nemico invisibile.”
Grazie zio Raf e sappi che, anche se nel tuo orto-gioiello balli da solo, rimani sempre un grande partner di valzer, tanghi e mazurche e tarantelle!

I commenti sono chiusi.