INQUIETUDINE

C’è un treno che da Itaca
mi riporta a te.
Nel vagone affollato
le voci degli altri passeggeri
mi giungono come un trambusto indistinto
che non intendo decifrare
e dal quale cerco invano di isolarmi
per sfuggire alla nausea.

Mi succede spesso di piangere un poco
lungo il viaggio, nascondendo la malinconia
dentro un’anonima giacca di jeans.
Dal vetro opaco del finestrino
le colline i prati le case gli alberi
– ostili, estranei –
sfrecciano senza lasciare traccia nel mio sguardo,
senza darmi conforto
indifferenti ed immobili come sono
a crogiolarsi sotto la carezza del sole.

Io invece mi sento spostata,
alla perenne, affannosa ricerca
dei brandelli perduti della mia anima
che giacciono sparsi alla rinfusa
lungo le rive del fiume che amo,
impigliati nel canneto e sotto i sassi,
inzuppati di acqua stagnante e di fango…

Ma ecco ad un tratto, nel sole abbagliante
due cipressi, come neri gabbiani di terra,
fermi sul colle a far da guardia alla pieve.
Qui ti ritrovo all’improvviso
e qui ti amo.
Amo la tua attesa paziente
– questo sguardo tenero e premuroso –
e il calore della tua mano
in cui finalmente posso riposare.

Accanto a te, ad occhi chiusi,
una musica dolcissima mi culla
e le tue mani tra i miei capelli
mi persuadono a poco a poco
che è ancora bello vivere,
almeno fino a quando continuerò
a vedere il tuo sorriso
nel grigio cortile di una stazione
dove, come per incanto,
fiorirà sempre una rosa per me.

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