IL RITORNO DELL’AMATA (“… SOVRA CANDIDO VEL CINTA D’ULIVA DONNA M’APPARVE…”)

Nel ventisettesimo canto del Purgatorio, “l’angel di Dio”, mentre “il giorno sen giva”, stando “fuor de la fiamma”, appare a Dante e Virgilio e li invita ad attraversare quel fuoco che circonda il Paradiso terrestre, il giardino perduto di delizie, dove per breve tempo l’uomo era stato felice. Tale passaggio è necessario per conseguire la purificazione di tutte quelle “anime sante” perché avviate alla beatitudine. L’angelo avverte, infatti, che “più non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso e al cantar di là non siate sorde”.

Dante, tuttavia, ricordando la già veduta pena del rogo, si terrorizza e impallidisce; ma Virgilio lo incoraggia, poiché quel fuoco misterioso, acceso dalla divina Giustizia, arde ma non consuma; e quindi lo esorta a non temere (“Pon giù omai, pon giù ogni temenza;/volgiti in qua e vieni: entra sicuro!”). Senonché la natura umana istintivamente frena Dante, pur desiderando egli obbedire a Virgilio; e soltanto la via del sentimento riesce a sciogliere poi la sua durezza, allorché Virgilio gli dice “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”.

Infatti, nell’udire quel nome, che sempre gli risuona nella mente, la sua resistenza diviene debole (“la mia durezza fatta solla,… udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla”), sì che in tale direzione Virgilio lo stimola (“Lo dolce padre mio, per confortarmi,/pur di Beatrice ragionando andava,/dicendo: “li occhi suoi già veder parmi”).

Nell’intraprendere poi la salita al Paradiso terrestre, si va facendo sera (“Lo sol sen va – soggiunse – e vien la sera;/non v’arrestate, ma studiate il passo,/mentre che l’occidente non s‘annera”); e la legge del Purgatorio non consente di procedere di notte.

Sopravviene altresì la stanchezza e ciascuno si adagia su un giardino, mancando d’improvviso sia la forza che la volontà di salire (“ciascun di noi d’un grado fece letto;/ché la natura del monte ci affranse/ la possa del salir più e ‘l diletto”).

Dante si addormenta (“mi prese il sonno; il sonno che sovente,/anzi che ‘l fatto sia, sa le novelle”). Nel sognare vede Lia e Rachele (che preludono l’imminente apparire, nel Paradiso terrestre, di Matelda e di Beatrice). Al risveglio, Virgilio così si congeda da Dante: “Il temporal foco e l’etterno/veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte/dov’io per me più oltre non discerno”… “lo tuo piacere omai prendi per duce;… “mentre che vegnan lieti li occhi belli/ che, lagrimando, a te venir mi fenno,/ seder ti puoi e puoi andar tra elli./Non aspettar mio dir più né mio cenno;/libero, dritto e sano è tuo arbitrio,/ e fallo fora non fare a suo senno;/per ch’io te sovra te corono e mitrio”.

Nel trentesimo canto del Purgatorio appaiono angeli che a pieni mani spargono gigli (“Manibus, oh, date lilia plenis!”); e Dante racconta: “così dentro una nuvola di fiori…” “sovra candido vel cinta d’uliva/donna m’apparve, sotto verde manto/vestita di color di fiamma viva”. È il ritorno di Beatrice, ancora munita della bellezza della sua vita terrena, ma anche del nuovo fascino di quella beata.

Dante, che già da tempo aveva provato l’incanto per lei, “d’antico amor sentì la gran potenza”, come un improvviso ed irresistibile richiamo a tutto un passato che tocca di nuovo il suo animo. Egli, quindi, con lo sguardo cerca Virgilio per confidargli che non gli è rimasta neppure una goccia di sangue che non tremi ancor per l’emozione ancor ora provata e per dirgli “conosco i segni de l’antica fiamma”. Ma Virgilio, avendo ormai ultimato il suo spirituale soccorso in favore del Poeta, si è già allontanato, cedendo il posto ad un più elevato intervento, poiché alla ragione umana, che ha già operato, deve ora subentrare, con Beatrice, la fede, e cioè non più l’aiuto dell’ingegno, ma il sostegno della stessa volontà divina.

Qui Dante, chiamato per la prima ed unica volta per nome, riceve il rimprovero dalla sua donna, che lo esorta a non piangere, in quanto l’allontanamento di Virgilio è soltanto l’inizio di ben altro dolore, più forte, che egli proverà quando confesserà le proprie colpe (”Dante, perché Virgilio se ne vada,/non pianger anco, non piangere ancora;/ ché pianger ti convien per altra spada”).

Poi lei, mantenendo un altero atteggiamento sovrano (“regalmente ne l’atto ancor proterva”), sempre un po’ a modo di rimprovero, dice al Poeta “guardami bene, ben son Beatrice”; e gli domanda “Come degnasti d’accedere al monte?, non sapevi che qui è la felicità?”, da lui, invece, cercata altrove nei beni terreni. E così Dante, per la vergogna abbassa gli occhi e, vedendo nell’acqua la propria immagine avvilita, ferma lo sguardo sull’erba, sentendosi umiliato (“Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;/ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,/tanta vergogna mi gravò la fronte”).

Si leva, però, il canto degli angeli, che esprime compassione per l’anima colpevole del Poeta; il quale prova emozione per la pietà che gli angeli mostrano verso di lui. Ed il rigore di Beatrice è dovuto al suo desiderio di adeguare in Dante il dolore alle sue colpe, perché possa ottenerne perdono (“che mi intenda colui che di là piagne,/perché sia colpa e duol d’una misura”). Le sue principali colpe erano state l’amore disordinato per altre donne e l’orgoglio filosofico di fronte alla dottrina rivelata.

E lui era caduto così in basso nel suo traviamento, che l’unico mezzo per la sua conversione rimase quello di costatare le conseguenze del male e la pena eterna dei dannati, con la sua discesa nel regno dell’Inferno (“tanto giù cadde, che tutti argomenti/a la salute sua eran già corti,/fuor che mostrarli le perdute genti”). Ma la sua contrizione, per divenir egli degno di accedere alla visione di Dio, richiedeva pur sempre il pagamento di un prezzo di lacrime di pentimento con dolore profondo, onde poter così varcare il fiume Lete dell’oblio del male (“Alto fato di Dio sarebbe rotto/, se Lete si passasse, e tal vivanda/fosse gustata sanza alcuno scotto/ di pentimento che lagrime spanda”).

Nel trentunesimo canto del Purgatorio, Beatrice, rivolgendosi direttamente a Dante, lo esorta alla confessione (“O tu che se’ di là dal fiume sacro,/di’, di’ se questo è vero; a tanta accusa/tua confession conviene esser congiunta”); ed il Poeta espone la storia del suo smarrimento, affermando altresì mentre piange “Le presenti cose/col falso lor piacer volser mei passi,/tosto che il vostro viso si nascose”).

Beatrice spiega che non si dovevano perseguire cose caduche ed invita Dante a guardarla, ma lui sviene per il dolore. Matelda immerge l Poeta nel Lete (“La bella donna ne le braccia aprissi;/abbracciommi la testa e mi sommerse/ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi”; e le virtù cardinali lo conducono a Beatrice, perché contempli i suoi occhi, mentre le virtù teologali la pregano perché scopra il suo volto (“… bagnato m’offerse/dentro a la danza de le quattro belle”… “l’altre tre si fero avanti,/danzando al loro angelico caribo”.).

Come ormai da dieci anni, perdura in Dante il forte desiderio di rivedere il volto della sua amata; il cui sorriso attira gli occhi del Poeta, che ben conosce la forza del suo antico amore (“tant’eran li occhi miei fissi e attenti/ a disbramarsi la decenne sete,/che li altri sensi m’eran tutti spenti;/ed essi quinci e quindi avean parete/di non caler – così lo santo riso/ a sé traéli l’antica rete!-;”). Egli si addormenta e si ridesta, poi, per lo splendore e alla voce di Matelda (“La bella donna che mi trasse al varco”… “Però trascorro e quando mi svegliai,/ e dico ch’un splendor mi squarciò ‘l velo/del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?»”. Purg., 32^ canto).

Nel canto trentatreesimo, ultimo del Purgatorio, Beatrice con dolce espressione invita Dante ad affrettare il passo per avvicinarsi a lei e meglio comprendere le sue parole (“e con tranquillo aspetto: “Vien giù tosto”,/mi disse, “tanto che, s’io parlo teco,/ad ascoltarmi tu sie ben disposto”).

Ma il Poeta, pur camminando al fianco d lei, non osa, dopo i rimproveri avuti, rivolgerle domande, benché Beatrice lo conforti chiamandolo “fratello” (Sì com’io fui, com’io dovea, seco,/dissemi: “Frate, perché non t’attenti/ a domandarmi ormai venendo meco?”). Ella inoltre lo esorta a liberarsi da ogni vergogna e timore come chi parli in sogno (“Ed ella a me: “Da tema e da vergogna/voglio che tu omai ti disviluppe,/sì che non parli com’om che sogna”). Beatrice annuncia l’imminente venuta di un messo di Dio (“… messo di Dio, anciderà la fuia/con quel gigante che con lei delinque”). Osserva poi che la vita umana è mortale, mentre la vera vita, quella in cui lei vive per sempre, è invece eterna.

Verità e gioia attendono, ora, il Poeta, liberato e purificato del peso terreno delle sue colpe: “Io ritornai da la santissima onda/rifatto sì come piante novelle/rinovellate di novella fronda,/puro e disposto a salir a le stelle”.

I commenti sono chiusi.