Agguato di San Martino, due testimonianze inchiodano Di Matola
Nell'ordinanza di custodia cautelare il gip riporta le testimonianze che hanno visto "Meluzziello" Di Matola prima picchiare un parente dell'ex boss del Clan Pagnozzi e poi avvicinarsi in auto e sparare a Clemente e al nipote. Ma per il gip, allo stato, non ci sono le evidenze delle aggravanti del metodo mafioso e della premeditazione
Agguato a San Martino Valle Caudina, sono le testimonianze oculari di due persone, madre e figlio, a inchiodare il 35enne Salvatore Di Matola, come riporta l’ordinanza di custodia cautelare in carcere del gip del tribunale di Napoli Linda D’Ancona.
Nel provvedimento viene descritto nei dettagli cos’è accaduto quella mattina. E’ la donna a descriverlo, raccontando di aver visto una prima volta “Meluzziello”, così viene soprannominato Di Matola in paese, mentre aggrediva e schiaffeggiava, nei pressi della piazza, un parente del boss Fiore Clemente. “Hai capito che devi fare quello che dico io?” le parole che Di Matola ha urlato contro la vittima, ascoltate dalla donna che per lo spavento ha tirato dritto la sua passeggiata recandosi verso il supermercato Pam lì vicino, dove doveva incontrarsi con il figlio. Ed entrambi hanno descritto la stessa scena agli inquirenti: dopo la prima aggressione in piazza, hanno visto salire Di Matola a bordo della sua Peugeot ed arrivare nel piazzale del supermercato, dove era appena giunto Fiore Clemente assieme alla moglie, che stavano chiacchierando con loro nipote, Antonio Pacca, dipendente del Pam.
L’auto con a bordo Di Matola si ferma a pochi metri da Clemente e il 35enne, nel racconto di madre e figlio, si sarebbe immediatamente sporto dal finestrino impugnando una pistola, iniziando a sparare una serie di colpi nei confronti dello storico boss del Clan Pagnozzi e del nipote. Un agguato vero e proprio dunque secondo il racconto dei due.
Una testimonianza che trova conferma anche nelle parole di Antonio Pacca: anche lui, dopo essere stato ferito, ha raccontato ai carabinieri il momento dell’agguato. “Di Matola si è affiancato a me e mio zio e senza scendere dalla macchina ci ha puntato una pistola contro, sparando diversi colpi che hanno ferito me alla gamba e mio zio all’addome”, la sua drammatica testimonianza.
Dietro questi elementi raccolti da carabinieri e procura antimafia, il gip ha dunque convalidato la scorsa settimana l’arresto di Di Matola, negando però la sussistenza delle aggravanti del metodo mafioso e della premeditazione (contestate dalla Dda): “la modalità del fatto”, scrive il gip, “pur eclatante, può derivare da qualsiasi pulsione dell’autore del reato, un accesso di rabbia o finalità di vendetta non legate a contesti camorristici e il fatto che il Clemente sia considerato vicino al Clan Pagnozzi non significa di per sé che il fatto sia avvenuto in un contesto di criminalità organizzata. Inoltre”, conclude il magistrato, “è impossibile allo stato parlare di premeditazione: dalla dinamica si comprende solo che l’accusato era armato, ma non che abbia ideato il delitto prima”
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