Atripalda e le sue carrozzelle

In tempi ormai remoti non era tanto agevole raggiungere Avellino, poiché, fatta eccezione per pochissimi privilegiati, muniti già di un personale autoveicolo, la quasi totalità di noi Atripaldesi poteva utilizzare soltanto gli autobus di due pubbliche linee che effettuavano rare corse di andata o ritorno in alcune ore della giornata. Alcuni di questi automezzi, peraltro, erano di malferme condizioni tecniche, tanto che spesso si fermavano per guasti lungo il percorso, che pertanto si imponeva ultimare con modi di fortuna.

Il problema toccava particolarmente noi studenti, poiché potevamo permanere nel Paese, che disponeva soltanto di una “bella” Scuola elementare (avere la quale era quasi come avere la mamma) e di una Scuola cosiddetta di Avviamento, ubicata in vecchi locali; ma, per frequentare tutte le altre Scuole, occorreva spostarsi o al vicino “borgo Ferrovia” per la Media (che rimane tuttora nel cuore di alcuni di noi) oppure recarsi, così come per ogni categoria di studio, inevitabilmente ad Avellino; dove spesso, per risparmiare la modica spesa di un mezzo pubblico (sul quale un severo fattorino ammoniva con il ripetuto invito “biglietto!”), ci si portava a piedi, età e forze permettendolo.

Ed era specialmente per quest’ultima esigenza che forse vivevano ancora in Atripalda le ben conosciute “carrozzelle”: provvidenziali piccoli mezzi di trasporto a “trazione animale”, certamente progenitori dei moderni taxi poi subentrati. Esse (dai finimenti in legno dall’inimitabile colore giallo-paglierino e dalle ruote rumorose perché cerchiate in ferro protettivo) erano costituite da un tipico abitacolo scoperto con due comodi posti, che poteva ospitare anche altri due viaggiatori (purché di taglia non esagerata) su appositi “strapuntini” frontali e addirittura un quinto che, se disposto ad “avventurarsi”, poteva prender posto “a cassetta”, cioè accanto al “cocchiere” sul lato anteriore della stessa carrozza. Quest’ultimo governava il convoglio, pazientemente trainato da un “umano” cavallo, ormai ben aduso a questo faticoso lavoro, che doveva ripetere più volte durante il giorno per i vari “viaggi” richiesti, forse consapevole di così collaborare col suo “padrone” nell’affrontare e (non sempre) risolvere il quotidiano problema del guadagnarsi “da vivere”. Questo meraviglioso essere vivente, che da sempre ha gareggiato col cane in solidarietà all’uomo (da questi meritata di certo?), accompagnandolo e aiutandolo nelle fatiche e nello sport e persino andando con lui a combattere ed anche morire in guerra, nel trainare ora una pour pesante carrozzella ha pure sopportate le nervose frustate ripetutamente somministrategli dal padrone-cocchiere al malinteso scopo di esortarlo a mettercela tutta nel tirare quel veicolo. Il cavallo, in sua bontà, obbediva allo sgarbato padrone, anche perché privo di un “sindacato” suo proprio che potesse magari promuovere uno sciopero di protesta contro quei “maltrattamenti” sul lavoro. Noi viaggiatori guardavamo il fatto con dispiacere e disagio; ed invece gioivano quando, a volte, quella frusta (nella nostra “lingua” detta “scurriato”) si limitava soltanto a sfiorare o “carezzare” il dorso di quel “lavoratore”, che comprendeva egualmente il senso dell’esortazione fattagli.

Durante il viaggio, tuttavia, vi erano alcuni momenti di vera difficoltà, come quando arrivava un’improvvisa pioggia, che induceva il cocchiere, per proteggerci, a dover alzare il mantice della carrozzella nonché coprirci alla meglio con un apposito telo di cui egli era comunque provvisto. Dopo di ciò rimontava alla guida, sfidando “eroicamente” la pioggia con un rudimentale impermeabile (chi sa da dove tirato fuori per l’emergenza) mentre il cavallo iniziava a correre sotto l’acqua, col pelo che diveniva lucciante e poi fumante.

Altra difficoltà, anche più preoccupante, insorgeva immancabile al cominciare della salita (cosiddetta “al borgo”), specialmente nel tratto che va dalla “Casina del Principe” alla piazza chiamata del “Re di bronzo”, ungo il quale il povero cavallo doveva intensificare il suo sforzo, spesso scivolando sul lastricato a causa dei ferri chiodati che portava sotto i suoi zoccoli. Qui il cocchiere “fraternizzava” col suo “dipendente” scendendo da cassetta ed affiancandolo a piedi come a condividerne lo sforzo ed incoraggiarlo.

A fine lavoro, quelle carrozzelle stazionavano in Atripalda, nel piccolo spazio accanto al primo ponte urbano sul fiume Sabato; ivi rimanevano in attesa di qualche altra richiesta di trasporto ed intanto i cavalli, oltre a fare, senza vergogna, i loro “umani” bisogni fisiologici ad onta della pubblicità del luogo, ricevevano dai loro padroni, quale giusta paga, la biada soltanto, già preparata per loro in appositi sacchi e bevevano avidamente tutta l’acqua contenuta nei secchi che, per maggiore comodità, gli stessi padroni sollevavano sin sotto il loro muso.

Giunto l’imbrunire, le carrozzelle venivano ritirate nei loro ricoveri insieme coi rispettivi cavalli, che ivi dormivano rimanendo in piedi e forse “sognando il bianco della strada”.

L’avvento della motorizzazione a tutto campo, del progresso, delle auto divenute personale mezzo di locomozione di tutti, con la voglia e la pretesa di avere ogni possibile comodità nella vita, hanno fatto “sparire” per sempre quelle romantiche carrozzelle economiche, sollecitamente “licenziate” insieme al loro cavallo e “cavaliere”.

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