Legittime rivendicazioni femminili già nel mondo antico

Apprendiamo da Tito Livio (“Ab urbe condita”, Libro 34^, traduzione e note di Luca Cardinali, Vol. 12, Edit. Fabbri, RCS, Milano 1994) che, pur tra le preoccupazioni provocate da guerre, un avvenimento di scarso rilievo, per le passioni coinvolte, sfociò in un’ampia contesa.

Infatti, su proposta del Tribuno della plebe Gaio Oppio, durante il consolato di Quinto Fabio e di Tiberio Sempronio, in mezzo al fuoco della guerra punica (“in medio ardore punici belli”), forse per la comprensibile gravità del momento, fu approvata una legge secondo la quale nessuna donna doveva possedere più di mezza oncia (= gr. 27,288) di oro né indossare vesti di vari colori né andare in carrozza a Roma o in altra città o in un raggio di mille passi da esse, se non in occasione di festività religiose pubbliche (“ nequa mulier plus semunciam auri haberet neu vestimento versicolori uteretur neu iuncto vehiculo in urbe oppidove aut propius inde mille passus nisi sacrorum publicorum causa veheretur”)- (op.loc.cit.).

Di tale disposizione (forse indotta dal particolare bisogno di “austerità” e comunque contraria ad un “lusso” inopportuno con “Annibale alle porte”), vari anni dopo fu proposta l’abrogazione dai Tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio. Ed al riguardo si accese un vivo contrasto nel quale molti parlarono a favore o contro il mantenimento della legge Oppio, affollando il Campidoglio con i loro interventi.

Ma, nella circostanza, un ruolo eccezionale ebbero proprio le matrone, dirette interessate al problema, che agirono in modo sorprendente in rapporto ad un’epoca lontana oltre duemila anni da oggi. Narra, infatti lo stesso Tito Livio (op.loc.cit.) che le matrone non potevano essere trattenute in casa da nessuna raccomandazione, da nessun senso di verecondia, da nessun ordine dei loro mariti (“Matronae nulla nec auctoritate nec verecondia nec imperio virorum contineri limine poterant”), ma bloccavano tutte le vie della città e gli accessi al Foro, pregando gli uomini che vi si recavano di consentire che venisse restituito anche alle matrone il loro abbigliamento di un tempo (“quoque pristinum ornatum reddi paterentur”), visto che lo Stato godeva di prosperità e i patrimoni privati di tutti i cittadini crescevano di giorno in giorno. Questa folla di donne si faceva sempre più fitta con il passare dei giorni (“Augebatur haec frequentia mulierum in dies”); infatti ne affluivano anche dalle città e dai borghi circostanti. Ormai osavano avvicinarsi ai consoli , ai pretori e agli altri magistrati per rivolgere loro degli appelli (Iam et consules praetoresque ed alios magistratus adire et rogare audebant”). Ma non si lasciava affatto vincere dalle preghiere almeno uno dei due consoli, Marco Porcio Catone; il quale parlò in favore della legge che s’intendeva abrogare”, tra l’altro tuonando :”Se ciascuno di voi, o Quiriti, si fosse proposto di conservare la propria autorità e la propria dignità di marito nei confronti della propria moglie, avremmo meno da fare con tutte quante le donne; ora la nostra libertà, abbattuta in casa dalla prepotenza femminile, anche qui nel foro viene conculcata e calpestata, e poiché non le abbiamo tenute a freno una per una, ora ne abbiamo timore nel loro insieme” (“nunc domi victa libertas nostra impotentia muliebri hic quoque in foro obteritur et calcatur, et quia singulas sustinere non potuimus universas horremus”):- (op.lod.cit.).

E, più oltre, l’oratore considerava “Invero, non senza un certo rossore sono giunto poco fa nel foro, passando in mezzo ad una schiera di donne (“Equidem non sine rubore quodam paulo ante per medium agmen mulierum in forum perveni”). E se, perché non sembrassero aspramente rimproverate da un console, non mi avesse trattenuto il rispetto per la dignità ed il senso del pudore delle singole più che della loro totalità, avrei detto loro : “Che abitudine è questa di uscire fuori, correndo, in pubblico, di bloccare le strade e fare appello ad estranei? Non aveste potuto rivolgere tali richieste, ciascuno al proprio marito, a casa? O forse siete più seducenti in pubblico che in privato? E con i mariti delle altre piuttosto che con i vostri?” (Op.loc.cit.).

Catone ricordava, inoltre, che i loro antenati vietarono alle donne di svolgere alcuna attività, pubblica o privata, senza un tutore, mentre ora si tollera addirittura che esse compiano attività politica e si intromettano persino nelle assemblee e nelle elezioni (“nos, si diis placet, iam etiam rem publicam capessere eas patimur et foro prope et contionibus et comitiis immisceri” op.loc.cit.). E paventava le conseguenze di questo allentare i freni alla natura già indocile delle donne, incapaci di dominarsi; nonché ipotizzando che, se messe in condiziione di parità con i mariti, subito li avrebbero poi superati (“Extemplo simul pares esse coeperint, superiores erunt” op. loc. cit.).

La “piena” dell’oratoria di Catone proseguì con molte argomentazioni a favore della legge Oppia, limitatrice del lusso delle donne, e contro la loro sollevazione tesa a togliere ogni limite alle loro spese, facendo prevalere gli opposti vizi dell’avidità e della lussuria, eterni flagelli di cui si deve aver paura quanto più aumenti il benessere sociale. E, rivolgendosi, infine, direttamente alle donne, Catone domanda, in tono retorico, perché ciascuna, reso uguale l’abbigliamento di tutte per legge, dovrebbe temere di essere guardata! (“Sic aequato omnium cultu quid unaquaeque vestrum veretur ne in se conspiciatur? Loc.cit.), quando, poi, è pessima vergogna proprio l’arrossire della parsimonia o della povertà, laddove è la legge Oppia che libera le donne stesse da ambedue queste forme di vergogna non facendo possedere ciò che non rende lecito possedere (“Pessimus quidem pudor est vel parsimoniae vel paupertatis; sed utrumque lex vobis demit cum id quod habere non licet non habetis” Op.loc.cit.) Fa anche appello agli uomini perché non favoriscano tra le loro mogli una rivalità che induca le ricche ad avere più di ogni altra e quelle povere, pe scongiurare questa “menomazione”, a sforzarsi ad un tenore di vita superiore alle loro disponibilità (“Vultis hoc certamen uxoribus vestris inicere, Quirites, ut divites id habere velint quod nullo alia possit, pauperes, ne ob hoc ipsum contemnantur, supra vires se extendant?”op. loc. cit.). E conclude considerando che si procurerà lusso dal suo patrimonio colei che ne sarà in grado, mentre quella che non potrà, lo chiederà al proprio marito; e povero costui allorché dovesse costatare, comunque, che un altro ha potuto dare ciò che lui non ha potuto (“Quae de suo poterit, parabit: quae non poterit, virum rogabit. Miserum illum virum…..cum quod ipse non dederit datum ad alio videbit” op.loc.cit.). Sancì, pertanto, che, fatta salva la volontà deli dei, la legge Oppia non dovesse essere abrogata (“Ego nulla modo abrogandam legem Oppia censeo: vos quod faxitis, deos omnes fortunare velim” op.loc.cit.).

Narra ancora Tito Livio (cit.) che, dopo il discorso di Catone, proseguì l’acceso dibattuto che le dichiarazioni adesive dei Tribuni della plebe; e prese poi la parola Valerio in favore del disegno della legge abrogativa da lui presentata (“L. Valerius pro rogatione ad se promulgata ita disseruit” op.loc.cit.), rispondendo al console Marco Porcio, da lui qualificato uomo assai eminente (“vir clarissimus”), ma che ha profuso più impegno per biasimare le matrone che per contrastare la stessa proposta in discussione (“ plura verba in castigandis matronis quam in rogatione nostra dissuadenda consumpsit” op.cit.); e che ha chiamato tumulto e sedizione e talvolta secessione di donne l’aver esser chiesto in pubblico di abrogare, in tempo di pace ed in un momento di prosperità e felicità per lo Stato, una legge presentata contro di loro durante la guerra, in tempi difficili. L’oratore si domandò inoltre che cosa avessero fatto le matrone di nuovo, solo uscendo in gran numero per una questione che le riguardava, come tante volte avevano già fatto e sempre, invero, nell’interesse dello Stato. Il loro intervento e la loro opera erano stati opportuni e determinanti, come avvenne dopo la conquista del Campidoglio da parte dei Sabini o dopo la cacciata dei re quando le legioni dei Volsci si erano accampate a cinque miglia da Roma, o quando la città era stata conquistata dai Galli, oppure nella seconda guerra punica o quando vennero introdotte a Roma nuove divinità. Argomentò, pertanto, che di certo avevano ora superbe orecchie se, mentre i padroni persino tollerano le preghiere dei loro servi, essi medesimi si infastidiscano nel ricevere richieste di donne rispettabili (“Superbas, me dius fidius, aures habn+mus si, cum domini servorum non fastidiant preces, nos rogare ad honestis feminis indignamur!” op.loc.cit.5). Considerò, altresì, che alle donne non spettano cariche sociali né decorazioni o trionfi, bensì competono l’eleganza, i monili, l’acconciatura, quali decorazioni di cui potersi compiacere; e che tocca agli uomini tenerle sotto protezione non in ischiavitù, onde preferire di esser detti padri e mariti invece che padroni, sì che quanto maggior sia l’autorità, tanto più con moderazione se ne debba far uso (“et vos in manu et tutela, non in servitio debetis habere eas et malle patres vos aut viros quam dominos dici”…. “Quo plus potestis, eo moderatius imperio uti debetis” op.loc.cit.7).

Proseguì, poi il dibattito tra i sostenitori e gli oppositori della legge Oppia, cui fece seguito, l’indomani, una gran folla di donne (“aliquanto maior frequenti mulierum””) che non si allontanarono finché non fu dai Tribuni revocato il loro veto (“nec ante abstiterunt quam remissa intercessio ab Tribunis est”); dopo di che fu certo che detta legge sarebbe stata rimossa, come infatti fu dopo vent’anni dalla sua emanazione (“Viginti annis post abrogata est quam lata” op.loc.cit.,8).

Subito dopo di ciò (“postquam abrogata lex Oppia est”) il console Marco Porcio, secondo i propri doveri e compiti, si mosse, con navi e truppe, per operazioni belliche.

E così quelle donne dell’antichità, nel racconto di un grande storico, risultano essere state ansiose ma coraggiose protagoniste di un evento socio-politico, animato da una loro rivendicazione tutta al femminile; che, pur da millenni, aveva già un sorprendente sapore d’attualità.

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