Gaudeamus igitur

Atripalda anche in passato, aveva, ovviamente, i suoi studenti universitari, distribuiti nelle varie Facoltà di studi dell’Ateneo napoletano.

Eravamo noi stessi, dopo aver frequentato le Scuole precedenti, a ritrovarci, poi, colleghi in questa importante fase successiva, che apriva per ciascuno prospettive di vita nelle quali erano riposti progetti e speranze per l’avvenire.

Nuovi problemi si ponevano con i nuovi studi, ma nascevano anche entusiasmi che ci avrebbero accompagnati in questo nostro ulteriore percorso; che pure ci offriva ambite occasioni di spensieratezza, che la nostra ancor giovane età ci consentiva ed anzi reclamava come gioia di vivere, unitamente al segreto vanto di sentirsi, a volte, già chiamare “dottore”, ormai emncipati dai (pur cari) banchi di scuola.

Ed una “ghiotta” occasione a tal riguardo si presentava proprio con la ben nota “festa della Matricola”, puntualmente attesa, organizzata e celebrata in vista di ciascun nuovo anno accademico da intraprendere.

Anche ad Atripalda si sapeva ben coltivare questo rito di spensierato divertimento, che consisteva nell’accoglimento gaudente di nuovi iscritti (le “matricole” appunto); che, ancora timidi e molto “imbranati”, accedevano ogni anno ad un corso universitario ancora freschi di licenza liceale, anche qualificati “poppanti” nel gergo goliardico degli studenti più anziani, ormai “smaliziati”.

E così essi, per essere “accettati” nella nuova compagine e farne poi legittimamente parte, dovevano prima “subire” il battesimo di ingresso con un apposito finto processo intentato a loro carico dagli studenti più anziani, specializzati nel trattare con apparente severità, ma in effetti con divertita allegria, i poveri esordienti. Pertanto accusa e difesa, nel rispettivo ruolo, sceneggiavano, nel Paese, un pubblico dibattimento, usando un maccheronico linguaggio trecentesco, condito anche di qualche veniale procacità, cui seguiva il verdetto del collegio giudicante; che, tra ripetute libagioni “propiziatorie”, certamente alla fine assolveva la malcapitata matricola-imputato.

All’uopo le imponeva, però, draconiane condizioni, consistenti in ricche consumazioni da offrire al bar, inneggiando intanto ad una generale allegria anche un po’ libertina; che tuttavia non riusciva a contagiare appieno le giovani colleghe pure presenti al processo; che infatti sapevano conservare inalterata, con la loro avvenenza, tutta la loro pudicizia.

Intanto quel rito giungeva al suo importante epilogo con la redazione e consegna all’interessato, a mò di notifica, di un singolare atto , quasi un verbale solenne dal ben conosciuto col nome di “papiello”.

Esso, parimenti compilato con terminologia approssimativa e classicheggiante, conteneva, tra le tante bizzarrie, anche un lungo elenco di “prescrizioni comportamentali” per l’avvenire, affidate al neo processato, prima tra le quali figurava immancabilmente “numquam studere”, seguita da molti altri espliciti suggerimenti un po’ disinvolti e facilmente immaginabili.

Poi la beata gioventù goliardica , indossando costumi d’epoca e con sulla testa la rituale “feluca” dal colore differente a seconda della Facoltà frequentata dal portatore, sfilava in allegro e pittoresco corteo per le vie di Atripalda, anche con suoni e balli un po’ carnacialeschi, che regalavano gioia e spensieratezza.

In serata, spesso programmato, v’era, infine, un attraente veglione danzante conclusivo, ben organizzato, sempre meglio riuscito ed ancor più da tutti gradito. Al governo di tanta allegria, per la cui realizzazione era anche necessario pensare alle spese occorrenti, noi promotori, studenti per definizione “sprovvisti di fondi”, provvedevamo tempestivamente girando per il Paese, ed anche fuori, per raccogliere contribuzioni da volenterosi benevolmente motivati in nostro favore. Tutto l’evento, infine, doveva anche avere un capo carismatico e rappresentativo, che ne fosse il regista.

Ed a tale scopo veniva investito, per consenso unanime, della qualifica di “Tribuno” il più geniale ma anche più “anziano” studente, magari “fuori corso” da tempo immemorabile; qualità, quest’ultima, elevata, anche se solo per tale occasione, a preferenziale titolo di merito.

Come una meteora, questa sospirata festa della Matricola giungeva poi al termine, lasciando soltanto il suo gradito ricordo, insieme al fermo proposito di ripeterla ancora per i successivi anni, come se la “dolce vita” universitaria non dovesse mai aver fine.

Ed invece non ci eravamo accorti che essa era una parte della stessa giovinezza di noi protagonisti, vissuta nel fascino di un rito; che col tempo sembra essere stato poi sollecitamente relegato “in soffitta”, come è inevitabile che, anche per le cose belle, prima o dopo, debba o possa purtroppo accadere.

Agguantiamo, dunque, il momento d’esser lieti, “gaudeamus igitur”, fu così l’esortazione, tutta racchiusa in quell’igitur che inconsapevolmente sapeva di “ultimatum” in vista di un divenire dal differente umore.

Infatti quella era per destino, una buona occasione di spensieratezza e d’allegria durante l’ultimo studio, prima di dover affrontare il vero travaglio della vita.

Era quindi opportuno sottintendere a noi stessi il ben noto “carpe diem”, magari implicito nell’illusione esorcizzante di un finto processo a carico di giovani esordienti, che in ogni nuovo anno sarebbero sopraggiunti; per così ripetere l’interminabile vicenda di quella strana festa; che aveva, perciò, un importante significato, quasi un monito, sì che le competeva d’esser conservata, e non solo come un ricordo.

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