La scuola delle differenze. L’etica della formazione

La nostra epoca è il tempo della parola plurale: ogni parola deve essere tale, consentire rimandi infiniti; in questa ottica, la differenza di opinione e di interpretazione è segno di una buona salute sociale. Se a me è consentito parlare, devo ammettere che anche il mio interlocutore e possa farlo in egual misura: è questa l’affermazione dell’ethos della comunicazione, premessa logica ed epistemologica per un’etica della formazione. Dalla persona che ascolta alla comunità dei dialoganti il passaggio è diretto. È questo probabilmente il percorso più interessante su cui riflettere ed indagare: un itinerario di vera e propria filosofia della cittadinanza intesa come riflessione sulle modalità in cui va esercitato il diritto di partecipare alla vita civile: comunicare, confrontarsi per costruire legami di cooperazione cognitiva ed emotiva fra le persone nell’agorà scolastica e sociale. Sì, perché esiste – almeno in linea di principio, anche se non si realizza automaticamente nelle comunità scolastiche – l’esigenza di una sorta di agorà in cui formarsi alla reciprocità, al confronto col ‘volto dell’altro’ anche in tenera età: una dimensione comunitaria inclusiva e rispettosa delle differenze individuali, ritenute una preziosa risorsa comunicativa in vista dell’arricchimento reciproco nell’intersoggettività. Saltare questo passaggio per una colpevole sottovalutazione del problema; non aiutare sufficientemente le giovani generazioni ad incrementare tempestivamente la ricerca consapevole della propria identità personale nel rapporto dialettico con l’alterità – anche con l’alterità problematica – è un gravissimo errore pedagogico e una pericolosa svista etica, che può comportare incalcolabili conseguenze sul piano personale e comunitario.

Ogni identità è frutto di una faticosa conquista, di un perenne narrarsi e cercarsi nel volto dell’altro (Lévinas: Etica e Infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito’ 1984). È la relazione comunicativa che ci istituisce e ci modifica (Bateson, 1989) nell’ermeneutica dell’incontro, per cui la personalità di ciascuno di noi è il risultato delle relazioni passate e presenti ed è in procinto di modificarsi in virtù degli incontri che non sono ancora avvenuti…Già e non ancora… (Ricoeur, 1998).

D’altronde, per i credenti l’intera creazione è sotto l’egida di una relazione: un continuo incontro, un patto, un’alleanza. Il principio dialogico è già nelle prime pagine della Bibbia: la prima lettera dell’Antico Testamento è Beth, che vale anche ‘due’, visto che nell’ebraico antico si attribuisce ad ogni consonante anche un valore numerico. I rabbini continuano a chiedersi perché nell’incipit del racconto biblico non compaia l’uno, simbolo di Dio, ma una dualità che allude alla dialettica IO-Tu. Nella nostra esistenza, in ogni esistenza, c’è una strana simmetria: noi lasciamo la traccia, altri la cercano e viceversa, in una inconsapevole quanto complice reciprocità. Le domande dei dialoganti si rincorrono nell’incessante ricerca della verità attesa. Ogni domanda a sua volta apre al possibile, possiede una sua forza originaria che in ogni tempo rilancia la scommessa, ma è il bambino il vero custode della domanda, in virtù del suo pensiero ‘staminale’, che non riesce ancora a rivelare quello che è scritto nel suo codice. L’adulto spesso seppellisce la domanda, che a sua volta si vendica attraverso gli eventi; l’adulto vorrebbe vivere solo di risposte, mentre il bambino rifà tutte le domande da capo, come i filosofi. È il bambino che ci rammenta le domande, perché le sua mente è il giacimento di tutti i percorsi possibili. L’adulto è il custode del reale che già si è incarnato, ma il bambino è il custode del senso autentico, perché l’età infantile è il luogo originario delle domande: born to think, nati per pensare. Per l’adulto il senso è l’utilità, mentre il bambino è il custode della possibilità di essere perenni, cioè il custode della filosofia; è per questo motivo che il suo modo di domandare è essenziale ai filosofi. Lo sa bene chi si dedica a tale tipo di indagine e ne è attraversato. L’adulto inconsapevole rischia di non poter rispondere perché non capisce la domanda, quel suo collocarsi nel mondo del possibile. Già il Leopardi della Ginestra si era accorto che i bambini ‘vedono il tutto nel nulla, mentre gli adulti vedono il nulla nel tutto’.

Le filosofie dialogiche di matrice ebraica (Buber, Ebner, Von Balthasar) prospettano una visione della persona in un senso comunitario-relazionale che recupera appieno la peculiarità di ciascuno, questo nostro essere unici e irripetibili: ciascuno col proprio bagaglio di potenzialità, carismi, talenti da spendere nello scambio dell’intersoggettività. Senonché, è il dialogo ontologicamente costituente e verbalmente modulato con il Tu che mi istituisce come Io. Non più cogito, ma cogitor ergo sum, perché è l’essere riconosciuto ed interpellato dall’altro che fa conseguire il pieno e autentico Sé personale. Peraltro, essere riconosciuto nella propria diversità/alterità è indicato come il bisogno più forte ed impellente nella scala dei valori prospettata da Maslow: un bisogno primario, la cui negazione e/o sottovalutazione provoca una notevole sofferenza. La stessa che infliggiamo – quasi sempre inconsapevolmente – agli alunni problematici, spesso portatori di BES o di disabilità, o agli immigrati di prima generazione. Individualità negate, di cui ci sfuggono i connotati, cui viene impedito di esprimersi nel proprio linguaggio, che ci rimane estraneo e non riusciamo ad ospitare. Non sapremo mai quanto potenziale educativo vada sprecato giornalmente nell’incomunicabilità di certi rapporti scolastici inficiati dal formalismo dei voti, o quanta identità sia negata ai lavavetri che ci assalgono ai semafori o – peggio ancora – quanta infanzia si perda nelle guerre e sulle sponde del mar Mediterraneo. Un quotidiano spreco di umanità in cui convergono sogni e bisogni, speranze, silenzi, umiliazioni, storie, ricordi che nessuno raccoglierà.

Per ritrovare i valori del riconoscimento dell’altro da me – senza il quale neanche io sono veramente me stesso – dobbiamo rispondere all’invito contenuto in un recente libro di Zygmunt Bauman e fare uno sforzo di retropia: per una volta guardare indietro e non davanti a noi, per rifarci alla storia dell’impegno radicale di un sacerdote maestro degli ultimi, il Freire italiano, che fece del bisogno di riconoscimento e dell’inclusione sociale la sua bandiera, un credo laico e religioso nello stesso tempo.

Un bisogno di riconoscimento cui seppe rispondere in pieno Don Lorenzo Milani nella sua scuola di Barbiana persa tra le colline del Mugello, tramutandolo in bisogno di cura, in pensiero caring, che si fa carico dell’alterità senza giudicarla, apprestando gli strumenti per darle voce. Dare la parola ai poveri, a chi non ha voce, ma ha diritto all’autoformazione e all’autorealizzazione costituisce l’obiettivo fondamentale di questo maestro sacerdote: ‘Il desiderio di esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo si intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Perciò essere maestro, esser sacerdote, esser cristiano, essere artista, essere amante ed essere amato sono in pratica la stessa cosa.’ A Barbiana si privilegiava la relazione maestro-alunno, dando importanza al tempo inteso come cairòs e non come cronos, da misurare sull’orologio. L’etica della formazione era vissuta nella quotidianità dei rapporti semplici e spontanei, diretti, non di rado persino bruschi. A Barbiana si includevano tutti, sviluppando le potenzialità di ciascuno e le diverse intelligenze: ‘Le parole dovevano essere riflettute, guai a fermarsi al semplice significato. – come dice il mio amico Edo Martinelli – Le parole dovevano condurci dovunque. Era frequente interrompere la lezione per correre dietro alle etimologie più astruse e sconosciute.’ Erano le parole stesse a produrre i percorsi formativi, che solo apparentemente apparivano informali, ma che nella realtà consentivano alla classe di autoprodurre sia il libro di testo che i materiali necessari per i laboratori.

È di tutta evidenza che un percorso come questo, indirizzato alla collaborazione, alla cooperazione, alla valorizzazione delle differenze, alla mediazione didattica e alla reciprocità è il solo approccio formativo in grado di rendere docenti e discenti – ma anche semplici interlocutori – protagonisti assoluti del successo comunicativo nel solco dell’interdipendenza positiva.

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