Milano, una notte al Pronto Soccorso

Sono tornata. Il desiderio di trasformare la vita in parole e pensieri, dopo qualche mese di assenza, mi riporta di nuovo a raccontare storie di vita, di gente e di luoghi.

Milano, ore 23.00 di un venerdì di gennaio.
Il progetto iniziale era quello di fuggire per il weekend in una località di montagna frequentata dai milanesi e da turisti stranieri alla ricerca dell’ “Italian Winter style”. Ma un imprevisto di lavoro mi ha fatto cambiare idea.

Il destino questa volta ha optato per una saggia decisione.
Infatti, a distanza di un’ora dal cambio di programma, il mio anziano papà ha avuto un intoppo di salute e ho dovuto raggiungerlo di corsa in un pronto soccorso.
Niente di troppo serio, ma qualcosa di sufficiente a farmi rimanere per ore in attesa delle dimissioni.

Sul muro scrostato color verde menta della sala d’attesa, un cartello con la scritta “ACCETTAZIONE” mi riporta immediatamente alla necessità di iniettarmi una dose potente di RASSEGNAZIONE. Si farà notte e mai come in questo venerdì sera andato storto, la parola “accettazione” si carica di significati.

Partiamo dal contesto in cui mi trovo. L’accettazione di un pronto soccorso funzionerebbe con criteri di ammissione basati sulle urgenze e su motivazioni coerenti con la natura del servizio. Ma qualcosa non torna, mi guardo intorno e mi accorgo che siamo in una situazione completamente diversa. Nessuna selezione rigida su chi entra, forse nessuna vera emergenza.
Le sedie di metallo sono quasi tutte occupate da donne e uomini in ciabatte con sacchetti di plastica, panini morsicati, lattine vuote e copertine.
Sguardi persi nel vuoto, mugolii, monologhi strampalati. Un giovane dall’accento indefinibile, seduto al mio fianco, si sdraia improvvisamente puntandomi i piedi contro il cappotto. La porta automatica dell’ambulatorio si apre e compare un infermiere stralunato e piuttosto arrabbiato – per usare un eufemismo – con tono deciso esclama: “Alzati! Non sei a casa tua e questo non è un dormitorio!”. Mi guarda, gli sorrido, gli dico che non importa.

Cerco di intercettare i versi di un altro “soggetto” non identificato alla mia sinistra; parla da solo, è tutto accasciato, si muove a scatti, pronuncia qualche lamento, qualche imprecazione, balbetta e si dà risposte insensate.
Non riesco a decifrare tutte le note di un concerto stonato, distonico, multilinguistico, fatto di suoni, lamenti, occhi fuori dalle orbite che si incrociano per poi tornare al loro posto, dai loro “padroni”, persi ciascuno nel proprio disagio.
Lo stupore cresce nel rendermi conto che in questo locale di primo soccorso non ci sono veri e propri pazienti da curare, se non un paio di signore parcheggiate sulle barelle e un bimbo tenuto per mano da mamma e papà.
Si tratta di un rifugio di umanità di strada, di gente che si introduce semplicemente per stare al caldo. Giovani e anziani accatastati con abiti inadeguati, copertine bucate, persone di ogni nazionalità che tentano la fortuna premendo il pulsante rosso di una porta a vetri scorrevole. La porta si apre, la stanza li accetta, a prescindere.

Quell’infermiere pallido e provato da 12 ore di servizio non ha il coraggio di rifiutarli, anche se non mostrano necessità di soccorso. Li conosce, sono persone senza fissa dimora e ogni giorno in questo pronto soccorso si compie un atto dovuto, necessario a sentirsi esseri umani.

L’infermiere però li tiene in riga, li vuole svegli quando iniziano a russare troppo forte e li riprende quando litigano tra di loro per un piede sfiorato, un centimetro di sedia rubato. In questa stanza è in atto una vera e propria, commovente guerra di territorio tra disperati.

Nel frattempo, un medico cerca i pazienti veri, quelli come mio papà, che si confondono e si mischiano ai rifugiati ai confini della realtà.

Chiudo gli occhi per qualche istante e immagino di essere in un altro mondo, il loro.
Il mondo degli invisibili che stanno diventando sempre più visibili, di coloro che si intrufolano nei “posti sbagliati”.
Il mondo degli esclusi, dei falliti, dei poco fortunati, di coloro che hanno sbagliato, di chi scappa dalla sofferenza, di chi pensava di trovare ciò che non ha trovato, di chi ha perso tutto.

Mi immedesimo in quello “stato di grazia” tipico di chi si rassegna dissociabdosi dalla realtà perché non ha altra scelta. Ecco, la stanza dell’accettazione diventa quella della rassegnazione che si manifesta in uno stato di “trance” senza ritorno.

Queste anime in pena sono anime, punto.
Se si tengono gli occhi chiusi e si ascolta il concerto onirico dei loro brontolii più o meno accesi, dei loro flussi di coscienza, dei lamenti confusi, dei monologhi inconsci, si intercettano storie di vita, di sentimenti, di rabbie, di delusioni, di amori. Molti di loro sussurrano, altri gridano e quando lo fanno l’infermiere si affaccia. Non hanno bisogno di medicamenti, hanno bisogno di una porta che si apre e di un cuore che si accorga di loro in silenzio.

Apro gli occhi ed è tutto come prima: un lazzaretto di anime, più che di corpi.
Ad un certo punto, l’infermiere sembra non accorgersi più della loro presenza di “clandestini”. Non ha tempo, nè altra scelta, deve continuare a lavorare.
Fuori fa freddo, sono le due del mattino e il papà viene dimesso.
Ce ne andiamo a casa e lasciamo alle nostre spalle il set di una realtà che sembra un film, talmente è surreale.

La porta a vetri scorrevole questa volte si apre per noi e si richiude per loro.
Almeno stanno al caldo, questo mi consola, ma allo stesso mi fa precipitare in una tristezza infinita.

Mentre penso alla montagna, mi accorgo di essere felice di non esserci andata; questa serata è stata di una intensità umana e familiare senza precedenti.

Nutro la speranza che domattina, in quella sala d’aspetto di anime protagoniste del film “Accettazione”, arrivi un’infermiera generosa che prenda la chiavetta dalla tasca e offra a tutti un caffè caldo e un biscotto secco della mitica macchinetta.

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