La forza della connessione

In questi giorni non si contano elogi e apprezzamenti nei confronti dell’eroe nazionale Jannik Sinner, il tennista altoatesino che domenica scorsa ci ha tenuti col fiato sospeso per quattro ore, per poi farci emozionare vincendo la prestigiosa coppa degli Australian Open.

Tutti raccontano la sua storia, la sua ascesa, il percorso che lo ha portato a raggiungere i vertici della classifica dei tennisti più forti del mondo in tempi record e
Jannik festeggia, ringrazia in stile nordico, con toni sobri, senza eccessi. Si presta alle interviste col sorriso pacato ed io rimango colpita dal suo sguardo: adulto, intenso, non comune né ai ragazzi, né agli sportivi della sua età.

Sinner torna dall’Australia come un guerriero che pensa già alla prossima sfida e si presenta puntuale al Quirinale, dal Presidente della Repubblica, per ricevere gli onori e i complimenti ufficiali.
Visibilmente emozionato, ma non abbastanza da perdere il filo di un discorso semplice, anche qui si pone in modo essenziale, ma efficace. Si rivolge al Presidente Mattarella, ai suoi compagni e al suo team con gli occhi lucidi, sottolineando l’aspetto umano di un successo ottenuto grazie al supporto di tutti.
Se la cava bene anche con il suo italiano “contaminato” da quell’accento altoatesino che contraddistingue gli abitanti di una terra diventata Italia solo cento anni fa.

Al netto di tutte le analisi e di gli elogi letti e ascoltati in questi giorni, sento il desiderio di esprimere una mia considerazione su questo giovane sportivo.
Lo considero un “esemplare”, più che un esempio, di come un essere umano, sin dall’infanzia, possa nutrire passione per la vita. Quella passione che ti trasforma in un essere unico e speciale nella normalità di una vita come tante.

Sinner è nato tra i sacrifici di una famiglia di lavoratori al servizio di un rifugio e di un ristorante in alta montagna, nella routine della
vita di paese, in un paese di confine. È stato un bambino come tanti, ma si è trasformato in un ragazzo speciale perché ha sentito precocemente la necessità di entrare in contatto con sé stesso.
La sua figura mi sta appassionando, mi ricorda il personaggio di un romanzo classico. Sinner è un ragazzo di frontiera d’altri tempi, lo immagino crescere in quel paesino di montagna dove la vita quotidiana è scandita da ritmi sempre uguali, dal tempo rallentato, dalla distanza da tutto, da tante cose e da tante opportunità, ma non da sé stesso.

Il percorso di Jannik Sinner sembra la metafora del rispetto per le origini, per i sacrifici fatti dalla famiglia, per la normalità. Ma soprattutto è l’espressione della capacità di connessione con sé stessi, a prescindere da tutto e da tutti.
In lui leggo un forte desiderio di autoaffermazione nutrito già da bambino, non solo grazie agli insegnamenti della famiglia, ma dalla necessità di sintesi in termini di comprensione della propria natura.

Jannik non ha perso tempo, ha ritenuto necessario mettersi in contatto con la sua indole e di mettersi in gioco senza indugi, superando chissà quanti fantasmi, momenti bui, delusioni, paure. Ma lo ha fatto, non ha mollato, non ha cercato scorciatoie.

Come si fa a entrare in connessione con sè stessi in questo modo?
Sembra un’impresa impossibile per molte persone di qualsiasi età, un’incapacità sociale che si sta diffondendo come un “virus”, un disagio che entra nell’anima dei giovani e dei meno giovani sempre più impegnati nella corsa alla scorciatoia, all’omologazione, all’inseguimento di tutto ciò che non si è davvero o che non si può avere.

Il primo colpo che Sinner ha “schiacciato” nella sua vita è stato quello di collegare la testa al cuore, così da riuscire poi ad accendere l’interruttore luce della sua cameretta con la pallina da tennis, come racconta divertito in un’intervista.

Quanti di noi lo fanno? Non si tratta di diventare campioni di slam, campioni del mondo, personaggi famosi, si tratta solo di vincere la partita della nostra specificità e unicità.

Jannik è un fenomeno, non ci sono dubbi, e non può rappresentare un punto di arrivo per un adolescente qualsiasi.

Tuttavia, il messaggio che sta offrendo ai suoi coetanei, e anche a noi adulti, va oltre il talento del tennista prodigio ed è quello dell’importanza della relazione con sè stessi, del senso del dovere, che ciascuno di noi ha, di non fuggire da sé stesso, di non perdersi, di non disperdere energie in connessioni che ci allontanano dalla nostra vera natura e dal senso della nostra, specifica vita.

Vincere significa innanzitutto riconoscersi, non perdere tempo, confrontarsi ogni giorno con le nostre autentiche capacità e opportunità reali, con la nostra vera natura, prima che con le immagini distorte di un mondo, anche virtuale, che offusca e inganna.

Se noi adulti fossimo capaci di suggerire ai nostri figli e ai nostri nipoti di mettersi all’ascolto, di connettersi a loro stessi al buio, ad occhi chiusi, per qualche breve istante ogni giorno, faremmo di loro individui in grado di intercettare desideri, sogni, emozioni, passioni. Faremmo di loro esseri attivi anziché passivi e assorti nel cliccare le false vite degli altri.

I Sinner rimarrebbero esemplari unici e rari, ma i nostri ragazzi un giorno, forse, ci ringrazierebbero per averli aiutati a conoscersi, a realizzarsi concretamente, a non perdere tempo in connessioni virtuali inutili. E perché no, anche a vincere.

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