LA PLASTICA – DAL GIOCO DEL BIGLIARDO A MINACCIA PER LA NOSTRA SALUTE

Da ragazzo, di tanto in tanto, passavano sotto casa l’ombrellaio, l’arrotino e, con una certa maggiore frequenza, il robivecchi. Questi personaggi e i loro mestieri, sono da considerarsi pressoché estinti, anche se qualche raro e irriducibile superstite dei primi due, ogni tanto, ancora oggi, si fa vivo attraverso il messaggio pubblicitario lanciato da un’auto.
Nell’economia del baratto, molto praticata all’epoca, mia madre scendeva in strada munita delle cianfrusaglie più varie, vecchi abiti dismessi, ferraglia di vario genere, contenitori e secchi zincati. L’occasione era ghiotta; il robivecchi per tutti questi oggetti, che io non avrei valutato una lira, ricambiava con un secchio o una bacinella fatta di un nuovo materiale, molto richiesto, resistente e flessibile insieme, leggero e di vari colori, denominato plastica.
Già allora, primi anni 60, la pubblicità era l’anima del commercio e Carosello mandava in onda per reclamizzare questo nuovo materiale, uno sketch del comico, Gino Bramieri, il quale, fornito di ragguardevole corporatura, nel sedersi, sistematicamente faceva fuori qualsiasi tipo di seggiola, cavandosela però con la sua coinvolgente simpatia e pronunciando la frase: “ …e mò e mò e mò…Moplen”.
Raccomandava poi, di fornirsi di una seduta finalmente sicura: ”La signora badi ben, che sia fatta di Moplen!”.
La plastica Moplen era prodotta dalla Montecatini, divenuta poi Montedison. Fu definita, in quegli anni, addirittura scoperta del secolo. Orgoglio tutto italiano perché, a contribuire alla sua scoperta, era stato un chimico imperiese, Giulio Natta, che nel 1963 fu insignito, per questo, del premio Nobel.
Il moplen sopravvive ancora oggi negli articoli più disparati, cruscotti e paraurti, tappi ed etichette per bottiglie di plastica, custodie per CD, bicchieri e contenitori per yogurt, oltre che vari oggetti per uso sanitario. E’ contrassegnato da una sigla a lettere maiuscole, PP (polipropilene).
Ma le plastiche, dette anche polimeri sintetici, ricavati da prodotti petrolchimici, petrolio e gas naturale, in pochissimo tempo, lo sappiamo bene, hanno aggredito il mercato e sono aumentate a dismisura occupando i più svariati settori di utilizzo. Oggi, prendendo in esame solo quelle per gli alimenti, ne esistono di vario tipo. Sono quasi tutte riciclabili. Basta leggere sul fondo del contenitore; si incontra un triangolino frecciato con all’interno numeri da 1 fino a 7.
PET (1) bottiglie per l’acqua minerale; HDPE (2) bottiglie per l’olio; PVC (3) imballaggi per alimenti; PP (5) confezioni per latticini; PS (6) piatti, bicchieri e contenitori per alimenti.
Poi esistono le plastiche non ad uso alimentare: LDPE (4) i sacchetti e le buste per i rifiuti. E infine il n. (7), privo di sigle, che contempla tutti gli altri tipi di plastica non elencati in precedenza e non riciclabili.
Rientrano in quest’ultima categoria i prodotti realizzati con la combinazione di più elementi, come ad esempio una vaschetta che abbia uno strato esterno di un materiale e uno interno di un altro.
Ma la nascita delle prime materie plastiche è molto più antica e risale a quasi due secoli fa.
La mia è una duplice storia, una romantica e l’altra dannata.
Comincio dalla prima.

Il signor quindici palle
Permettetemi di mandare un pensiero affettuoso all’attore e regista Francesco Nuti, del quale, per questo paragrafo, ho preso a prestito il titolo di un suo film.
Perché anche qui, di storie di bigliardo si parla.
Si era a metà dell’ottocento e John Wesley Hyatt era un giovane americano stampatore di giornali che, con il fratello, si dilettava, in una baracca trasformata a laboratorio chimico, a sperimentare nuove sostanze.
Era facilitato dal fatto che in quel periodo, negli Stati Uniti, era facilissimo procurarsi le sostanze chimiche, la cui vendita non sottostava a nessuna regola precisa.
Il gioco del bigliardo era nato in Europa nel 1400, tra le famiglie aristocratiche, come una simulazione al chiuso del gioco del croquet e questo spiega il colore verde che ancora oggi ha il tappeto di gioco.
Appena cominciò a diffondersi in America, attraverso l’ importazione di qualche marinaio inglese, i gestori di bar e pub fiutarono il richiamo che poteva offrire questo gioco sulla clientela.
C’era un problema però. Le palle da gioco erano di avorio; sostanza eccellente perché dura e resistente alle sollecitazioni delle forti collisioni tra le palle, senza il pericolo di deformarsi o scheggiarsi.
Il problema allora?… erano molto costose.
Oltretutto gli americani, ancora oggi, sono avvezzi a giocare il pool (la nostra carambola a 15 palle). I costi di produzione riducevano la capacità di diffusione del gioco su larga scala.
La ditta Phelan & Collender, la più grande produttrice d’America di tavoli da gioco, fece pubblicare un annuncio sul New York Times mettendo in palio un premio di diecimila dollari per chiunque riuscisse ad inventare un materiale sostitutivo dell’avorio.
Ecco allora che si fece avanti Hyatt, il giovane di belle speranze.
Oggigiorno sembra incredibile che qualcuno possa compiere una scoperta rivoluzionaria nel campo della chimica all’interno di una baracca. Ma nel tardo Ottocento, che segnò l’avvio dell’era aurea dell’ingegneria chimica, questo coincise con l’opportunità, sul piano imprenditoriale, di fare soldi per mezzo dell’invenzione di nuovi materiali a prescindere dai crediti del laboratorio di provenienza.
Un esempio: in quello stesso periodo Charles Goodyear ideò la gomma vulcanizzata mentre era detenuto in una prigione per debitori. Detto per inciso, le sponde del bigliardo utilizzarono la sua gomma per migliorare il rimbalzo della palla.
Il nostro eroe veniva fuori dalle esperienze con la nitroglicerina, un esplosivo usato durante la guerra civile americana. Con spirito da scienziato pazzo decise di combinare l’acido nitrico non con la glicerina, che dava origine all’esplosivo, ma con pasta di cellulosa. Immergeva una pallina di legno legata a un filo e in questo composto aggiungeva il collodio per dare solidità e un colore simile a quello dell’avorio. Le prime esperienze mostrarono ancora un inconveniente, non esplodevano, ma erano infiammabili. Per ridurre questo inconveniente eliminò l’anima di legno e usò, per la copertura esterna, un nuovo solvente, ricavato dal petrolio, la nafta. Potere della chimica organica, dove il simile contrasta il simile!
Il materiale prodotto, che John Wesley Hyatt battezzò celluloide (dall’unione dei due nomi cellulosa e collodio) e il rivestimento, plastificazione, permise, allo scienziato novello, di aggiudicarsi il premio di 10000 dollari e consentì la produzione di questo nuovo materiale per ottenere più economiche palle da bigliardo.

La moltiplicazione delle plastiche
La celluloide cominciò a sostituire materiali più costosi; oltre all’avorio. l’ebano, la tartaruga, la madreperla. La diffusione della plastica a buon mercato permise enormi profitti dalla vendita di pettini, spazzole, collane e perle di plastica richiesti dalla classe media in espansione, desiderosa di comprare i beni che somigliassero a quelli di materiali pregiati delle classi più facoltose.
In quegli stessi anni altri due sostanze simili alla celluloide furono prodotte, sull’altra sponda dell’Atlantico, in Inghilterra.
Il metallurgo britannico Alexander Parker inventò una curiosissima sostanza di origine vegetale ma dura, trasparente e plastica che battezzò “parkesina”, presentata all’Esposizione Universale di Londra del 1862.
Un altro inglese, Daniel Spill, servendosi dello stesso procedimento dell’americano, sostituì il suo solvente con la canfora, producendo un materiale che chiamò, xilonite.
Furono prodotte anche dentiere e protesi dentarie con questi nuovi materiali. Avevano degli inconvenienti non da poco, però, perché rilasciavano uno sgradevole sapore di zolfo e di canfora e col tempo si deformavano.
Oggi sia per le palle da bigliardo che per le protesi vengono utilizzate resine fenoliche e plastiche acriliche.
Le plastiche create dopo la celluloide, per esempio la bachelite, il nylon, il vinile e il silicone hanno esercitato un profondo impatto nella produzione industriale di innumerevoli oggetti. La bachelite si impose come un succedaneo plasmabile del legno, nell’epoca in cui furono inventati telefono, radio e televisione.
La lucentezza del nylon attrasse l’industria della moda. Sostituì la seta come materiale per le calze da donna e diede vita a una nuova famiglia di tessuti come la lycra e il PVC, e gli elastomeri, senza i quali i vestiti ci andrebbero larghi e, per riderci su, le mutande ci cadrebbero per terra.
Il vinile ha cambiato la storia della musica, il modo in cui la registriamo e la ascoltiamo e ha contribuito a creare, perché no, anche le rockstar.
E per quanto riguarda il silicone, be’, diciamo che ha trasformato un intero settore della medicina, uno dei più prolifici, quello della chirurgia plastica.

La fabbrica dei sogni
Quando nacque la fotografia, si utilizzavano grosse e pesanti lastre di vetro, che servivano da supporto e poi venivano spalmate in superficie con l’emulsione fotosensibile.
Ancora un americano, George Eastman pensò di servirsi della celluloide per creare delle pellicole flessibili che potevano essere arrotolate e infilate in macchine fotografiche molto più piccole e maneggevoli, leggere ed economiche. L’invenzione della pellicola di celluloide segnò un momento decisivo della storia della cultura visiva. Fu l’antesignana delle pellicole cinematografiche.
Che un’immagine potesse muoversi attraverso piccoli cambiamenti consequenziali, esisteva da centinaia di anni, ma senza un materiale trasparente e flessibile, l’unico modo per metterla in pratica era attraverso il cilindro rotante di un zootropio.
Con la celluloide tutto cambiò.
Consentì di mostrare sequenze animate molto più lunghe. Fu l’intuizione chiave dei fratelli Lumière che portò, poi, all’affermazione del cinematografo. Finiva un secolo di sperimentazione artigianale da sottoscala. Ne cominciava un altro. Il Novecento sarebbe diventato il secolo dell’immagine e dell’immaginazione. Avrebbe dato inizio alla Grande Magia del Cinema.
“Il Lungo Nastro dei Sogni” come lo definì Orson Welles.
Infine, dimenticavo, George Eastman divenne fondatore e presidente della Kodak Company.

E la storia dannata? Niente fretta; ne parliamo la prossima volta!

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