Le sorti dell’incanto

Libro scelto: Le sorti dell’incanto– Gattogrigio Editore

Autore: Luca Crastolla

a cura di Emanuela Sica

“Queste parole ti stanno/come il midollo all’indole”

Quando “l’ispirazione” crea “l’espressione” allora l’idea si materializza in un legame, quasi chimico, tra le parole, capace di far fuoriuscire mondi inesplorati che, prendendo la via dell’aria, si espandono in maniera esponenziale dando vita ad un rapimento sentimentale che travolge chi legge. Oltre a questo la parola stessa è dissezionata “anatomicamente” per svelare i passati remoti del poeta, creando versi che sanno di devozione e afflato emozionale come quella che sente chi sgrana un rosario, facendo del verbo preghiera in unione e commistione con la terra in cui abita la dimora fisica (il corpo) e s’allunga e s’assottiglia la danza del vento pellegrino (l’anima).

Ne “Le sorti dell’incanto”, che viene immediatamente dopo il suo libro d’esordio, “L’ignoranza della polvere” – Controluna Editore – la traccia esistenziale è una sorta di etnico vagheggiamento indirizzato da una purpurea magia che aleggia dal primo all’ultimo verso in costante attrazione e contraddizione con il paese, il Sud, che mai si lascia, che mai ci lascia anche quando tentiamo di evadere e ad esso ritorniamo, quasi sempre, genuflessi come in una battente processione dei Santi. Il poeta sembra decisamente convinto e vinto, al tempo stesso, da uno spaesamento ineludibile che porta a rallentarlo nei passi, a fermarsi sulla soglia del domani, con l’ottica reliquiaria dell’appartenenza, dell’essere una cosa sola con quel locus da cui è stato generato e da cui genera le sue architetture linguistiche capaci di impalare cattedrali ma anche di crollare sotto il peso degli smarrimenti. Soglia che è l’anticamera dell’ispirazione e conseguente costruzione poetica, da qui si propaga una violenta esplosione che frammenta la parola in mille e mille schegge che però, come richiamate a unità, si riallineano per ripopolare i pensieri più acuti e profondi, per rimodulare le azioni nel solco della nostalgia immanente e multifocale di un uomo che mai ha tranciato il legame ombelicale e ancestrale con la sua terra, con quella zolla che sanguina e innesta sementi sempre nuove per irrorare di “verbo” quelle “immagini” che della normalità fanno scempio.

Da qui in poi non si può non aderire a quanto dice Giuseppe Cerbino nella sua post-fazione: “Il dettato poetico di Luca Crastolla si caratterizza per una precisione del “vocabolo” sempre più deciso nella direzione di una rottura del discorso e della grammatica. Tanto più esatto esso è, tanto più frastagliata è la sintassi, in quanto la versificazione, nel poeta pugliese, mantiene la sua quota nella voce, parola da cui deriva “vocabolo”. Prima che quest’ultimo si riduca a lemma e a elemento codificale, rivendica il suo ruolo di “urlo”. Questo singolare aspetto permette di riconoscere nella “voce” di Luca Crastolla una naturale “vocazione” non al racconto e alla didascalia (sempre evitata con accortezza da questo poeta) ma alla “denuncia” assimilando così la lezione di grandi poeti conterranei al Nostro come Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Antonio Verri e in parte Salvatore Toma. Altresì trovo suggestiva la presenza di Carmelo Bene, nel punto in cui anche in Luca, la phoné deflagra rovinosamente come una lava che lascia indovinare le sagome di ciò che ha coperto.”

E se Luca Crastolla urla, la sua tenacia nella gola è in perenne lotta con l’agonia dello sconforto, anche se, per molti tratti, una sorta d’inconsapevole rassegnazione sembra far capolino in alcune curve della vita, nelle stazioni ove il dolore permane con maggiore essenzialità, dove la luce della mattinata si annuncia come un momento che può ribaltare le percezioni e farle sprofondare nel buio della paura. In quella esistenza che si annoda nella sua consistenza di figlio, padre, marito, uomo nell’opposta costanza di un’incostante tempo che non riesce ad arginare il movimento dell’andare, dell’andarsene.

Nelle mani/ dimagrite riconoscerai le mie dita come cadono/ nel latte che tieni in caldo altrimenti la morte/ in casa, sotto gli occhi dei cari.

La parola Crastolliana, a mio avviso, nasce “spontanea” pur nella “ricercata” costruzione del “verso”. Se per un attimo ci fermiamo ad analizzare la sua “arte” scissa dalla poesia, ma legata semplicemente ai termini che mette al mondo, io sento, nella suggestiva composizione lirica, una catarsi introversa con un Dio che lo guida a nuovi passi, a nuove aspirazioni di concetti. Questo perché i carmi migliori, che ribollono nella complessità spirituale del suo Io, mettono a dimora nella terra e nell’aria sinapsi di percezioni oniriche e memorie mai evase dalla mente. È come un “nirvana capovolto” la visione che genera, nel momento in cui il testo si stacca dalla “normalità” pur raccontando la “normalità”. Sappiamo che nel buddismo il Nirvana è uno stato perfetto di pace e felicità, culmine della vita ascetica, che consiste nella estinzione dei desideri, delle passioni, delle illusioni dei sensi, e quindi nell’annientamento della propria individualità. In Crastolla, e non è un controsenso con la sua spiritualità sacra e pagana al tempo stesso, questo stato si capovolge al punto tale da generare una cosa nuova in cui vi è sì un annientamento del proprio ego ma allo stesso modo, in maniera quasi recrudescente, risale il dolore per qualcosa che non è né pace né felicità ma tormento. Probabilmente è questa la “religione della parola” di cui il poeta parla nei “grappoli” emotivi del suo dire “delle sue suppliche” e del suo contraddirsi nelle sembianze di figlio, di ricostruire, come “artigiano della parola”, un proprio “idioma crastolliano”. Una lingua che ha sostanza e assenza, che ha conflitti e quiete, che ha colori ma anche numerosi chiaroscuri, cesellata in precisione nel margine di un’idea e di un’aspirazione tale da creare arte unica, differente, ma sempre con lo stesso marchio distintivo.

Riflettiamo un attimo. Quanto importante e di spessore sia un momento della nostra esistenza è dato dalle parole che ad esso si legano come in un’attrazione esponenziale di emozioni e percezioni da cui poi emerge, quasi strategicamente, il sonoro della parola. Parola che si gonfia, esplode, si frammenta e si ricompone nell’elegia di un canto prendendo forma e dimensione un percorso anche narrativo, per astratta intenzione di dire oltre la poesia stessa, come se accanto alle note di linguaggio (nuovo) vi fosse un controcanto di non detto. Per certi versi a me pare un “alchimista” della parola, capace di far trasmigrare, nel suo personale “alambicco ispirativo”, la parola originaria per poi distillarla, addirittura trasformarla, trasmutarla e farne essenza nuova e fluida, per certi versi anche contorta, ma profumata e inebriante comunque. E se gli alchimisti erano alla perenne ricerca della formula per trasformare il metallo in oro Crastolla cerca di trasformare la parola in vita, la sua.

Ed anche quando appare tortuoso il sentiero del suo dire dopo poco la scenografia si sveste della dimensione limbica e la realtà scende a innevare ogni cosa col suo candore d’infante, come se ad un certo punto un bambino, divenuto adulto troppo in fretta, avesse necessità di tornare a sorridere e viaggiare nella bellezza di un passato da cui mai si è distaccato veramente.

Appaiono così le molteplici sembianze del poeta, che in alcuni versi è un genitore capace di generare sogni sgancianti dalla quotidianità, con l’istinto protettivo, ma anche di svelare le sacche nascoste del quotidiano “essere uomo” nel mondo, come in un progetto di scavo per portare alla luce i tesori più nascosti ma anche le maledizioni che quei tesori custodiscono. Potrei per questo definirlo un “avanguardista del sud” capace di tracciare nuove geografie del suo sentire, nuove direzioni del suo divagare senza mai “veramente” staccare fisicamente le radici da quei luoghi. Radici ancorate sempre più in profondità, come maggiormente prova a fuggire tanto più si avviluppano al terreno.

Ed ancora, nella sua elegiaca trasformazione, come a voler essere, in un barlume di candela, l’accattone che prende fiato dal terreno su cui dimora, per riposare le membra stanche e, allo stesso modo, un Dio che si innalza, severo, a caducare i momenti di sconforto e ridonare luce alla notte, nelle albe in cui i sensi si riaccendono come per magia e come per “incanto” senza una spiegazione plausibile ma semplicemente perché accade.

L’incarnazione, la consacrazione di un dio/ sapido, povero, di solo spirito; cane/ da compagnia, Argo d’attesa. Il paese dorme/ sulle riverenze amorose. Riconto le nocche/ delle mani alitate dal chiarore rotondo/ in fondo ai vicoli venosi, l’arterioso vitigno/ (più in basso la radio: qualche frequenza di rumore;/ oltre, l’ordine delle fughe fra piastrella e piastrella)

Per questo, quando parlo di sezione anatomica, ho l’impressione che il poeta voglia portare in scena una sorta di vestizione e di svestizione dell’uomo, consapevole degli inganni del suo tempo, dei giorni, delle ore ma anche dei momenti, capace di farsi carne nell’essenza del verbo che rifiorisce di volta in volta nella fantasia più multifocale possibile, eterogenea nella sua tradizione senza perimetri o confini, ma anche spogliarsi dalle sue stesse essenzialità, diventare poca cosa, in uno con il segreto della natura, dei suoi quadri a cui l’autore si rapporta con costante e attenta sacralità.

E da questa svestizione dovrebbe sorgere la peculiarità di un uomo nuovo, che vive e si realizza in simbiosi con il suo habitat, con il posto in cui ha deciso di interpretare la sua scenografia emozionale, nei luoghi della riflessione e della compassione, consapevole che la ferita che sanguina dal costato, che la colatura del sangue diventa grumo e condizione per carpire ogni singolo alito di vita che gli sta intorno.

Sud che respira e toglie il respiro, che diventa “ombra” di madre “sulla nostra ombra/ L’ombra di qualcuno cui rispondiamo/ riacconciando il garbo e riallacciando le vene/”, “un’aria funerale si annida, nessuno può vedere/. Quindi cerchi un rito, non vorresti/ tenere tutto in un’idea (…)” ed ancora madre che si assenta, che diventa presenza e poi scompare, che rende il tempo all’inutilità, ai lavori senza senso, “che “annaffia scorze” invece che radici, e che ritiene i figli “trascurabili” abbandonati alla loro condizione di perenne scarto.”

Ombra da cui trarre scampoli di sofferenza, ispirazione, incanto, nella prospettiva che essa sia non tanto una evanescenza ma la proiezione dell’anima del corpo da cui ha preso forma. Nella concettualità dell’ombra anche il Sud stesso si innesta come colui che esiste tra l’idea e la realtà, tra la motivazione e l’atto, come diceva Thomas Stearns Eliot. Ed è quindi in questa dimensione che il poeta rivela tutte le sue fragilità, consapevole che queste siano talmente tanto importanti da sentirsi quasi asfissiato e senza forze, pur nella prospettiva di imparare da queste a vivere la vita lontano dagli inganni dell’uomo moderno.

Ed è quindi una lotta, quasi impari, tra il moderno e l’antico, nei versi e nei daccapo, a fare della lirica stessa icona di conflittualità quasi sempre impossibili da ricondurre alla quiete, alla pace inconsistente di un momento. Come se in quel lembo di terra, che si espande sino a New York, o a Varese, ma sempre di fionda dal Sud, vi fosse una guerra da cui nessuno possa uscirne vivo. Perché destinata a creare orfani, morti, vivi che non sanno di esserlo e cimiteri di “solitudini a schiera:/ La pietra è la sola materia/ l’unica anima caritatevole/ che si faccia intaccare dal piccone della rabbia(…)”

È questo di Luca Crastolla un lavoro di “prezioso artigianato poetico” in cui, nella pittorica scala cromatica, non manca il nero. Un colore capace di rende esattamente la sofferta consapevolezza di ciò che è stato, di quello che non si è potuto modificare o di quello che si è voluto supinamente subire, tale da diventare occasione per tracciare un bilancio sofferto degli insegnamenti, spesso mancati, degli errori, in una parole delle “maestranze” ricevute in dote dal destino o scientemente ignorate dalla nostra volontà, in una lezione sentita nel sangue, devastante come gli “orrori” che si rifrangono ingiustamente nelle parole e nei volti dei vissuti.

Dispiace la miseria delle parole/
l’aver confuso la lista dei doni con l’indice dei rendimenti;/
l’aver raccolto di fretta i calzini; l’aver scelto di tacere
di nuovo la pelle come quando le stagioni erano
poche, ma promettevano alternate partenze. Dispiace
l’aver scelto la quieta natività sulle porte a soffietto dell’anno;/
l’esser scesi alla fermata sbagliata; l’aver ceduto
il posto all’altro nello specchio che non si degna di uno
sguardo/
Dispiace la miseria delle parole, la violenza
di ogni tentato riscatto adibito a risarcimento

Luca Crastolla nasce nel 1974 a Fasano dove risiede. Laureato in Scienze dell’educazione, attualmente lavora come educatore psichiatrico. Nel 2018, per Controluna Edizioni Poesie, pubblica la sua prima silloge dal titolo “L’ignoranza della polvere”. Il suo nome compare nell’antologia “Paesaggi liberi” raccolta di poesie pubblicata nel 2018 a tema la violenza sulle donne, e nel 2019 nell’antologia “Nel corpo la voce” sempre per Controluna. Il libro scelto fa parte de “i Poeti“ una collana di poesia diretta ad Andrea Casoli per Gattogrigio Editore.

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