Le sacche della rana

Libro scelto: Le sacche della rana
Autore: Michele Caccamo

Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa
ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine.
Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto
per me un vizio più micidiale della cocaina.
Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.

Pier Paolo Pasolini

Si apre con questa citazione – che è sintesi ed epitaffio della vita e della morte di Pier Paolo Pasolini – l’ultimo libro “poetico” di Michele Caccamo. L’autore stesso, in una fulminea nota introduttiva, così ce lo descrive: “Non è una biografia. In questo poemetto nessun riferimento è lasciato al caso, ogni sezione è pertinente. Potrebbe essere un giallo, anzi, forse è un giallo.”
Il materiale narrativo di quest’opera viene plasmato attraverso la poesia in cui è evidente una traccia esistenziale ed essenziale sin dall’incipit: il rapporto di Pasolini con la madre, Susanna Colussi, che venerava come una madonna (lo diceva anche Oriana Fallaci) e di converso il suo rifiuto viscerale per l’essere uomo, soprattutto nel rapporto col padre di cui, quasi, non si sentiva figlio proprio per quel rinnegare la maternità nel concetto di commistione sessuale di due corpi che si uniscono. Pasolini identificava il peccato come elemento da cui fuggire con tutta la sua volontà eppure al peccato ritornava sempre. Come una condanna ricercata con dovizia di particolari. Un rapporto iconico, profondo, quasi reliquiario.
A seguire, come in un cortometraggio, c’è l’infanzia a Casarsa, le lotte con i corvi, le fiamme alle sterpaglie, la pena di non poter generare nulla in quanto uomo e quindi sterile per dare alla luce gemme. La certezza che lui non sarebbe mai stato uguale agli altri, ma un uomo anormale secondo i canoni morali ed anche estetici del tempo.
La narrazione poetica che Caccamo mette in piedi, ha chiari richiami Felliniani nell’immaginazione filmica della scenografia che, nei versi, mette in azione. Si tratta di un percorso che, a mio avviso e per molti aspetti, viene sicuramente ispirato da un’entità (superiore) che non solo muove le parole ma le mette al mondo per mezzo dell’autore. Si sente, nella partitura poetica del libro, la voce fuori campo di Pasolini che il Caccamo chiama semplicemente Pier. Come se tra i due, nel rapporto di unione e commistione biografica, che però l’autore stesso rifugge, sia stata instaurata un’amicizia profonda. Molto spesso accade, quando si studia un determinato autore, che la narrativa prenda il posto dell’immedesimazione. Ed è quello che mi pare sia successo in questo lavoro. Tra Caccamo e Pasolini si è sicuramente creato un rapporto di amicizia e di introspezione attiva nell’animo del poeta, regista ed artista estinto.
E, in aggiunta, c’è molto dello stile Pasoliniano nella ricerca della parola utilizzata e della rappresentazione emotiva del personaggio con chiari agganci a quella che fu la maggiore esperienza professionale di Pasolini, ossia la regia. La parola è libera dagli schemi prefigurati, prende versi autonomi e quasi anarchici. Pregna di significato simbolico e metaforico agganciata comunque alla realtà senza edulcoranti.
Il titolo del libro merita una considerazione a parte. Aprendo il poemetto riesce, da solo, a focalizzare la tragica quanto “ricercata” fine del Pasolini (spiegherò dopo il senso della parola messa tra virgolette). Iniziamo col dire che Rana era il soprannome del Pelosi, ossia del presunto assassino di Pier reo confesso che, tuttavia, a distanza di anni dalla celebrazione del processo, improvvisamente cambiò versione parlando di complici nel delitto e quasi spostando la responsabilità dello stesso su matrici che andavano dal campo politico a quello della morale. Lui stesso diceva che quando sorrideva le sue guance si riempissero d’aria come quelle di una rana e da qui il nome che si è portato appresso fino alla tomba. Tuttavia nel libro le sacche della rana sono intese anche nel senso di materializzare quello che fu il luogo del delitto, ossia il litorale di Ostia detto anche Idroscalo. “Ostia era piena di fosse di rane, arrivavano donne mascherate da pantere e uomini deboli come cigni…” “Aspettavano arrivasse un ragazzo qualsiasi che li pestasse come un mortaio”.
Su quale sia stato il reale movente del delitto permangono molti dubbi. Versioni ufficiali e teorie. Per lungo tempo Giuseppe Pelosi ha sempre dichiarato di esser stato “lui a uccidere Pasolini, come atto di difesa per le insistenti avances sessuali dello scrittore. Le perizie sul corpo martoriato di Pasolini, le verifiche sul luogo dove si svolse il massacro, le asserzioni scricchiolanti di Pelosi, e alcune dichiarazioni di testimoni (rimasti anonimi), confermavano però fin dall’inizio che al massacro avessero partecipato più persone. A questo bisognerebbe aggiungere anche alcuni fattori scaturiti dalla logica: Pasolini era atletico, e difficilmente poteva soccombere al mingherlino Pelosi; sui vestiti di “Pino la rana”, non c’erano vistose tracce ematiche e non presentava ferite causate dalla lotta. Il taglietto sulla fronte se l’era procurato sbattendo la testa sul volante dell’Alfa quando la pattuglia stradale gli tagliò la strada per fermarlo. Pertanto, da un lato le investigazioni sul delitto seguivano il percorso di una marchetta omosessuale terminata in tragedia, ma dall’altro, anche per le affermazioni di quei testimoni poi rimasti anonimi, si comprese che l’assassinio di Pasolini coinvolgeva più persone. Questa seconda pista investigativa iniziò a livello giornalistico, soprattutto con le inchieste di Oriana Fallaci, come ben conferma l’articolo, pubblicato sull’Espresso, “Pasolini ucciso da due motociclisti?” (14 novembre 1975). Questa seconda pista, ritenuta la più logica rispetto alla prima e alla terza (come si vedrà nel prossimo paragrafo), a tutt’oggi però è ancora nebulosa. Pasolini fu chiaramente massacrato da più persone, ma per quale motivo? Fu un semplice furto sfuggito di mano? I magnaccia della prostituzione omosessuale volevano dargli una lezione perché faceva troppe domande? Una spedizione punitiva partita dalle sfere alte per eliminare definitivamente Pasolini che voleva processare la DC e investigava troppo sull’Eni? Oltre a ciò, bisogna mettere agli atti come l’agguato nello sperduto Idroscalo di Ostia possa essere stato architettato dicendo a Pasolini che gli sarebbero state restituite le pizze di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), che qualche tempo prima erano state rubate negli studi della Technicolor. Pelosi, in questo caso, sarebbe stato un semplice accompagnatore. La tesi più “stravagante”, ma che ha comunque avuto un peso e finanche molte critiche, è quella fornita da Giuseppe Zigaina (1924-2015). Pittore friulano, molto amico di Pasolini. Per edificare questa tesi, il pittore friulano ha setacciato l’opera pasoliniana (soprattutto a partire dal 1961) e ha rinvenuto tracce di questo percorso autodistruttivo di Pasolini: “Per esprimermi compiutamente io devo morire. La mia morte dunque, come segno linguistico, come montaggio del film della mia vita”.
Ma di questo era consapevole anche Fallaci e lo ribadirà più volte in una lunga lettera postuma a Pasolini. Prendendo spunto dalla tesi di Zigaina, ovvero il desiderato martirio da parte di Pasolini, torna alla mente la scena della crocefissione di Gesù ne Il vangelo secondo Matteo (1964). Nel film Cristo è interpretato da Enrique Irazoqui, giovane studente spagnolo, mentre Maria è interpretata da due donne: da giovane è Margherita Caruso, mentre da anziana è Susanna Colussi (1891-1981), la madre dello scrittore. Nella succitata scena della crocefissione, la senile Maria corre disperata verso la croce, per poi gettarsi affranta ai suoi piedi, piangendo a dirotto la morte del giovane figlio. Benché il film non abbia – particolari – spunti autobiografici, come invece avrà successivamente Edipo Re (1967), la figura rivoluzionaria di Cristo collima con le azioni “ribelli” di Pasolini, contro la borghesia e i falsi intellettuali italiani. Quell’ultima scena, in cui una madre rotta dal dolore è in ginocchio davanti al corpo flagellato del figlio, sembra presagire proprio quanto accadrà quel fatidico 2 novembre 1975: Susanna Colussi piangerà il corpo martoriato del suo Pier Paolo.
Mentre leggevo il poemetto di Caccamo, spinta dalla necessità di approfondire il personaggio, mi è capitato di ricercare delle interviste da cui poter trarre ulteriori spunti di riflessione rispetto a quelli che mi creava il testo. Ho ascoltato, così, una delle ultime, se non erro, concessa ad una televisione francese. Pier sosteneva di sentirsi “superato”, diceva di voler “abiurare alla sua trilogia della vita” ed ancora che “scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati è un piacere, chi lo rifiuta è un moralista (falso).” In realtà Pasolini si sentiva un “indipendente di sinistra mai iscritto ad un partito politico, militante più che mai” anche se amava essere considerato “semplicemente uno scrittore”. Ed allora possiamo dire che serpeggiava una sorta di decadenza emotiva in cui sicuramente si inserì poi, la restante parte di vita che gli rimaneva da vivere. Una lucida rassegnazione ribolliva nelle vene unita ad un’inconsapevole speranza di mutamente che, da sola, gli serviva, come necessità di riscatto, per non lasciarsi completamente travolgere dagli eventi.
Tra i versi di Caccamo risalta, accanto all’icona, spirituale e materna, un’altra, che chiameremo politica e di lotta: sto parlando di Gramsci, a cui dedicò l’omonima raccolta poetica (Le ceneri di Gramsci). Pier si recava spesso nel cimitero acattolico di Roma, fermandosi per lungo tempo davanti alla sua tomba. Poeta, comunista, cattolico, omosessuale: tante e complesse erano le contraddizioni che si plasmavano e fiorivano nel suo io. Era un borghese attratto dalle borgate, dalle classi più umili. Soprattutto dai giovani sottoproletari disposti a darsi per denaro. Quando arriva a Roma con la madre trova una città devota e pagana. Bacchettona ed in espansione da cui nacquero le borgate ufficiali a quelle delle baracche. Decise di prende casa nel Ghetto Ebraico e dopo i furtivi amori friulani qui scopre la sessualità libera dei ragazzi romani, per questo si trasferisce nella periferia più povera in una casa senza tetto e senza intonaco. Lavora a Ciampino come insegnante privato. Roma ha un fascino violento che lo richiama.
In quei giovani, diceva, c’è un bene sacro, un eden in via di smarrimento. Persone assolutamente semplici che non hanno fatto neanche la 4 elementare: “un analfabeta ha sempre una certa grazia che perde con la cultura.” È allora che scrive “Ragazzi di Vita”, il suo romanzo più osceno perché parla di prostituzione omosessuale e lavora con Fellini per poi debuttare con “Accattone”. Le immagini che porta davanti alla telecamera sono dure, le vite sceneggiate sono senza morale e senza futuro che neanche il neorealismo aveva raccontato. È una storia senza redenzione. Il protagonista fa prostituire la compagna e vive di espedienti. Definito dai fascisti un film immorale, non cristiano innumerevoli furono le gazzarre nei cinema tanto che venne vietato ai minori di anni 18. Immagini carnali che riemergono anche nel libro di Caccamo consapevole che per Pasolini il cinema era la “lingua scritta della realtà”.
La capacità di Caccamo è insita proprio nella pregnante voce poetica che emerge dal testo. Le sue parole, Pasoliniane direi, per quanto sono, per alcuni versi, crude, riescono a dare voce non soltanto alla star, al personaggio famoso, quanto all’uomo che desiderava non venir rinchiuso nella cella angusta dell’omologazione, né della pubblicità, o in quella che chiamava “la dittatura del consenso”. “È impossibile dire che razza di urlo sia il mio – diceva Pasolini – tanto da sfigurarmi i lineamenti o rendermi come un bambino, anche una bestemmia. Ma questo mio urlo è destinato a durare oltre la mia fine.”
Un altro aspetto ben rappresentato nel poema è quello della “maturazione sentimentale e sessuale” di Pasolini. Nei meandri dell’Io Pasoliniano Caccamo la focalizza come un percorso lineare in crescita, come una progressiva presa di coscienza che lo portò a rifuggire la possibilità di nascondere la sua omosessualità per parlarne invece liberamente e fungere esso stesso da esempio per un rapporto più libero e sincero tra le persone ed il sesso.
Questo perché, anche semplicemente analizzando la biografia Pasoliniana, si possono distinguere tre fasi nel suo approccio al tema della sessualità. Una prima fase di carattere intimistico e privato, legata al periodo della sua gioventù e prima età adulta nei luoghi natii del Friuli e, segnatamente, del paese materno di Casarsa della Delizia. I primi componimenti nei quali l’autore menziona esplicitamente la propria omosessualità e vi si confronta. La prima di tali opere è la raccolta poetica “L’usignolo della Chiesa Cattolica” (1958), che raggruppa scritti in lingua italiana e friulana e che comprende anche Il pianto della rosa (prima opera in assoluto nella quale Pasolini affronta il tema della propria omosessualità). A questo periodo, che possiamo chiamare friulano, appartengono anche due romanzi brevi a lungo rimasti inediti e pubblicati postumi “Amado mio” e “Atti impuri”, due opere fortemente intimistiche e personali. C’è in questo primo corpus c’è quasi una catarsi circa i primi confusi pensieri e le pulsioni che iniziano ad agitarlo. Sono testi giovanili nei quali slanci poetici e positivi si alternano a momenti di profondo scoramento e confusione. Rappresentano un vero e proprio diario intimo dell’autore e del suo costruirsi una propria coscienza di omosessuale senza vergogna. La seconda fase si può invece far risalire al periodo nel quale si trasferisce a Roma. Ha già dovuto affrontare il primo processo, è stato espulso dal Partito Comunista e deve ricominciare da capo. Nella capitale incontra Sergio Citti, con la quale inizierà un rapporto di amicizia che durerà tutta la vita dell’autore. È a questa fase che possiamo ascrivere alcuni dei romanzi più famosi di Pasolini: “Ragazzi di vita” (1955), “Una vita violenta” (1959) il film documentario Comizi d’amore (1964), le pellicole Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). È questa una fase che potremmo definire come “sociologica”. È un periodo di analisi, di studio appunto sociologico ed antropologico circa l’essere umano. Ed è proprio in questa fase che si comincia a vedere in Pasolini un atteggiamento naturalista verso la sessualità. Pier, che ha studiato la società e continua a farlo, riesce ora a fotografarla, su carta e su pellicola, in maniera fedele, a comprenderne le varie componenti, tra le quali c’è anche la sessualità. I romanzi e i racconti di questo periodo dedicati ai ragazzi di vita ci riportano una realtà tutt’altro che idealizzata, nella quale la miseria umana di una società cresciuta senza ordine si mostra in tutta la sua drammaticità. Pasolini non si nasconde e non ci nasconde nulla. Pur critico nei confronti della borghesia non investe il proletariato di una luce purificatrice. Scevro di ogni retorica ci parla della condizione abbrutente delle fasce più povere della società che si ammassano nelle enormi borgate alla periferia di Roma. L’autore friulano inserisce sequenze di realismo quasi documentaristico per descrivere le vicende dei ragazzi di vita ed il loro rapporto con il sesso. Un rapporto privo di qualunque romanticheria o illusione, ma terragno e quasi animale. Il sesso qui è per lo più merce di scambio tra le persone. C’è chi vende e c’è chi compra, nessuno lo fa per piacere. È in queste opere che si comincia a delineare la posizione di Pasolini verso la sessualità: essa fa parte dell’essere umano, della sua natura, della sua vita; non c’è nulla da nascondere o da mortificare. Pasolini dunque fotografa un paese solo in apparenza progredito, nel quale lo sviluppo industriale non è sviluppo umano, della persona. Anzi vede quasi un regresso dell’essere umano. Ed in questo non manca di inserirsi anche una prima critica alla nuova società industriale, che nulla ha cambiato nell’anima profonda del popolo italiano, ancora pervicacemente attaccato ai retrivi costumi del passato. La terza fase del rapporto tra Pasolini ed il tema della sessualità può essere definita come “metaforica”. Comincia qui infatti la stesura di una serie di opere nelle quali il sesso è usato soprattutto come metafora. Pasolini non rinnega le fasi precedenti, ma come già aveva fatto in passato le arricchisce di un nuovo sguardo e linguaggio che ampliano il suo discorso.
Quindi il sesso è esplicitato come metafora dei rapporti di potere tra le classi sociali e gli individui permette all’autore di imbastire un discorso quanto mai sfaccettato che non lascia indietro le fasi precedenti, ma che anzi le innerva. Le tre fasi di qui abbiamo parlato arrivano a fondersi nell’opera Pasoliniana che dimostra di avere oramai raggiunto una piena maturità creativa ed è oramai in grado di gestire più piani di senso contemporaneamente. Ed ecco che al linguaggio immaginifico di “Petrolio”, si sommano le metafore di Teorema e di Salò o le 120 giornate di Sodoma. In Teorema Pasolini usa la metafora sessuale per parlare della perdita di certezze che ha investito la società a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, ed in particolare la borghesia. Pasolini si scaglia con durezza contro la nuova società dei consumi, nella quale l’edonismo ha soppiantato qualunque altro principio. Che libertà c’è in una società che tutto permette ufficiosamente ma non ufficialmente. Ci troviamo davanti ad un atteggiamento quasi schizofrenico del potere che sottomette l’individuo ad un forzato obbligo di libertà, ma non la libertà che può scegliere il singolo, ma la libertà scelta dal potere. Metafora che lo stesso Caccamo utilizza in molti versi per aderire a quella che era, per Pasolini, quasi una scelta “ educativa”
Nell’elaborazione poetica del cammino che porterà Pasolini alla morte viene in evidenza anche il concetto della “mercificazione del corpo” (Marx). Le persone sono merci al pari di tutte le altre e dunque possono essere sfruttate e poi abbandonate per poter essere rimpiazzate da nuove merci più fresche. In questo contesto si inseriscono anche le pellicole della Trilogia della vita: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974) in cui Pasolini compie un salto all’indietro verso una civiltà pre-industriale nella quale i rapporti tra le persone erano improntati ad un maggiore rispetto per l’altro. Si tratta appunto di un’apparenza. Anche in questo caso vale il discorso operato circa la terza fase “metaforica” del rapporto tra Pasolini e la sessualità. Con la Trilogia della vita l’autore vuole in realtà stabilire un parallelo tra la situazione del singolo nella società odierna e quella antica. In entrambe c’erano sfruttatori e sfruttati, la differenza però risiede nel ruolo che il sesso ricopre nei due tipi di società.
Nella società contemporanea a Pasolini il sesso è un obbligo imposto dall’alto – più un indizio di regresso che di progresso. Nella società antica, invece, il sesso aveva una vocazione libertaria ed anarchica. Veniva usato come arma per rompere le impostazioni rigide della società, era un veicolo di anarchia vitalistica contro il soffocare delle imposizioni del potere e restituire, in qualche modo, dignità al singolo.
Il libro si conclude con l’ultimo atto, quello violento e tragico della morte, sostenuto, in una maniera che azzarderei essere quasi “romantica”, dalla comparsa della figura di Ninetto D’Avoli: il grande amore di Pasolini.
Ninetto lo conosce quando non aveva ancora compiuto sedici anni. Tutto iniziò con una carezza, lo racconta lui stesso. La mano di Pasolini che si posa sulla massa di ricci che all’epoca lo contraddistingueva. E Caccamo, con un linguaggio aderente al cuore pulsante della disperazione, dona a Ninetto il requiem di commiato, la chiusa alla vita, la caduta del Dio, la dolorosa discesa dalla croce, la consapevolezza che mai si potrà tornare indietro da quel giorno maledetto: “E’ Pier l’amore messo in un corpo nudo, l’amore interrotto, l’amore che non riprenderà mai più fiato…il mio Pier.” Così scrive l’autore, ricostruendo una pagina di smarrimento devastante, sconfortante tristezza, dolente rassegnazione, tale da rendere pregnante di significato, sia simbolico che materiale, la consistenza “unica” e “inimitabile” del rapporto sentimentale tra i due personaggi.

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