Di terra e di donna – Controluna

Libro scelto: Di terra e di donna – Controluna
Autrice: Maria Gabriella Cianciulli

A cura di Emanuela Sica

“Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l’ha già creata.” (Albert Einstein)
La natura e la sua forza evocativa unita alla capacità di innestarsi nel respiro dell’anima e farsi corpo nell’essere umano, l’infinita varietà di emozioni che fruttificano come alberi carichi di doni inaspettati, le chiare e fresche parole che l’accompagnano nel suo viaggio “silenzioso” capaci di farsi sentire solo da chi ha orecchio e sensibilità acuta – altrimenti incompresa, svilita, rinnegata nel martirio del mondo moderno – è tutta “seminata” in questo meraviglioso lavoro poetico di Maria Gabriella Cianciulli.

Qualcuno diceva che “Guardare la bellezza della natura è il primo passo per purificare la mente”, sicuramente c’è una profonda verità in questa affermazione che viene messa a dimora anche nella dialettica ispiratrice di questo libro, che si fa carne nella sostanza naturale del mondo, nella magia della fioritura, nel seme che pur prossimo alla morte diventa altro e si rinnova nel germoglio da cui poi esploderà, di nuovo, la vita. In ogni pagina si assiste ad un viaggio, a piedi nudi, nella dolcezza, nell’arresa della donna ai sentimenti più autentici e concreti, distante mille anni luce dalla liquidità di quel mondo che cammina all’incontrario, sordo alla voce della natura, completamente eradicato dalla magia delle cose. Si avverte, potente e delicato al tempo stesso, il contatto con le sembianze naturali del mondo. Con quell’essenza purissima che si materializzare nel semplice accostamento pelle/erba/corteccia, oppure pelle/acqua/vento. Insomma la lirica ha in sé la capacità di creare, come argilla, sensazioni tattili e corpose che danno dimensione e consistenza al viaggio dell’autrice sia in superficie, in ciò che si tocca e si vede, sia nelle profondità dell’anima mundi, in quello che si percepisce con altri sensi legati in trasparenza all’empatia, all’immedesimazione, alla capacità di trarre parole anche dal silenzio di luoghi inesplorati.

È un viaggio che però, porta sul corpo, dardi infuocati di dolore, tracce indelebili di sofferenze oramai causticate dalla consapevolezza d’immutabilità, come quando la speranza si siede e rinuncia alla sua peculiarità ma guarda al futuro con rassegnazione. Eppure c’è qualcosa, in Cianciulli, che tira la necessità di non lasciarsi soggiogare dal pianto, di sognare ancora, di poter “riannodare il filo” per “riconoscersi crisalide”, tornare all’origine per arginare la perdita delle foglie di una pianta che si “erge nuda/ distribuendo cocci di tetto senza nome”. Forse, quel qualcosa, è il “tabernacolo di donna” utile a lasciare “agli occhi fecondi la trasparenza/un regalo di vita la nostra simbiosi/ niente altro che noi”.

Giuseppe Cerbino, nella prefazione, così ce la racconta “Nella lettura di questo libro di poesie di Maria Gabriella Cianciulli (…) si scorge sin dalla prima lirica, una sorta di mitologia privata tutta incardinata in due poli opposti: la madre e la terra che sono il recto e il verso della stessa cosa. Terra e madre, nella nostra cultura mediterranea, sono concetti spesso accostati in una sorta di sinonimia che svela come entrambe abbiano il loro nucleo antologico nel nutrimento. (…) Questo libro può essere letto come una sorta di moderno Cantico delle Creature in cui il racconto lirico prevale sulla lode e in cui il contatto totemico si sostituisce al ringraziamento. (…)”

Ed ecco che le note poetiche Cianciulliane, come amava definirle anche il maestro Armando Saveriano, suonano agli spiriti eletti, aleggiano nelle praterie delle mai evase dimenticanze, danno passi che hanno la delicatezza di un soffione sui cuori dei lodati abitanti e dei disabitanti. L’elegia dell’ambiente come nido e culla ma anche come radice e argilla, mentre il silenzio dei morti richiama pellegrinaggi lontani, ma non troppo da quella casa a cui sempre si ritorna.

L’accortezza e la cura del locus è afflato di emotività intensa e senza fronzoli, arriva alle caverne in cui scorre la linfa vitale e ne innesta nuovo e miracoloso nutrimento. Lei che ha imparato a “essere felice là dove sono” senza rimpianti di inconsistenza, glorificando ogni singolo giorno “che racchiude tutta la gioia, tutta la pace…” lo evidenzia richiamando Herman Hesse nelle prose scelte per l’incipit.

E ancora, nelle sue ariose stanze del sentirsi carne ed essenza concreta, tratteggia liricamente, senza inganni, un vero e proprio manifesto del Sud che riemerge vigoroso e, senza rimpianti o penurie di sentimenti, travalica ogni cosa, ribalta l’apparenza e diventa purissimo nello sguardo nitido di quella madre che è “Vita” e dedizione di “un amore in bozzolo” senza alcun tradimento a rovinarne la materia eletta.

“Io vivo a Sud del mondo/ in petto l’ardore e la nebbia/ una chimera nella mente e/ sa di sangue/ bolle evaporate sugli oceani/ raccolte nei grembi immolati/ immacolati e sazi di attesa/ Io vivo al Sud del mondo/ con i remi nella barca riparata/ al molo e sempre decollo sulle/ ali dei gabbiani colorate d’ambra/ e l’incenso fumato di una chiesa/ Io vivo al Sud del mondo/ col sigillo di una Croce che guarda/ il Nord nell’aurora boreale/ l’assedio delle stelle nel cuore/ corroso dalla dignità”

“Suggestioni umbratili” ripercorrono ed attraversano l’autrice e le sue discese nei boschi per poi risalire sino alla luna e diventare “braciere dell’attimo assoluto”, fecondi regali che lascia ai “naviganti” come “pepite”. Divinanti, senza alcuna ansiosa violenza, sono i richiami al rimanere. L’autrice è antagonista, decisa, alla fuga dell’arresa. Ed anche quando è “Dio” a raccontarsi “nell’assenza” tutto si ricongiunge nel tempo come “due lembi strappati” e la disperazione velocemente lascia il posto alla flautata danza, che ancora si rinnova, come “le foglie” che tanto rammenta, nei movimenti ancestrali, quella delle Muse.

Alla fine del libro ci si chiede se sia stato il linguaggio della poesia a ribaltarsi nella natura, diventando corpo nelle foglie, negli alberi, nel vento, nella terra (i termini maggiormente usati nelle liriche) oppure è la natura che ha fatto questo percorso a ritroso nell’anima dell’autrice per diventare corpo e trovare dimora nelle parole. Io penso che si possa parlare, in questo caso, di una sorta di “metempsicosi poetica”. L’autrice si trova in una pozione di assoluto ascolto e di tale immedesimazione con gli elementi della natura tanto da diventare essa stessa natura. Se pensiamo alla voce “donna” che sin dal titolo di ripete con assoluta peculiarità e come presenza stabile della sua ispirazione si ha come l’impressione che vi sia un’entità superiore, una dea a cui ogni cosa aspira e da cui ogni cosa trae ispirazione. Potrebbe essere quella Dea Madre di ancestrale rimembranza? A mio avviso sì e vi spiego perché. Sin dall’epoca paleolitica questa Dea veniva rappresentata con statuette che raffiguravano una donna nuda, formosa, con le braccia spesso alzate verso il cielo, ma anche verso il basso. Per lo psicologo Jung, la Dea Madre rappresenta all’interno di sé sia la forza della Creazione, che quella della Distruzione, proprio come la Natura è in grado di fare. Anche per lo studioso Neumann, la Dea rappresenta la Creazione del femminile inteso come “donna-corpo-vaso-mondo”. La potenza del dare la Vita, era nell’antichità quindi fatta risalire ad una Dea donna, non ad un Dio Uomo come avvenne successivamente. Chiamata anche Medea, Gea, o Iside, come in questo Inno che ben la descrive, rinvenuto in Egitto, e risalente al III° secondo a.C.: “Perché io sono colei che è prima e ultima/Io sono colei che è venerata e disprezzata,/Io sono colei che è prostituta e santa,/Io sono sposa e vergine,/Io sono madre e figlia,/Io sono le braccia di mia madre,/Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,/Io sono donna sposata e nubile,/Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,/Io sono colei che consola dei dolori del parto./Io sono sposa e sposo,/E il mio uomo nutrì la mia fertilità,/Io sono Madre di mio padre,/Io sono sorella di mio marito,/Ed egli è il figlio che ho respinto./Rispettatemi sempre,/Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica.”

La Dea quindi, come avviene anche nella poesia di Cianciulli, simboleggia la Terra, colei dalla quale si nasce e alla quale si ritorna con la Morte, non a caso nel titolo ci sono entrami i termini “Terra” e “Donna”. In questa prospettiva e nel ciclo infinito del “generare e derivare” viene ad essere rappresentata come sorgente di Vita, perché dal suo grembo nasce ogni cosa, e come padrona del Tempo, delle Stagioni, delle fasi lunari. Per tale ragione ci troviamo di fronte ad una Dea nella triplice personificazione della Dea Madre (anche chiamata Madre Natura, o Grande Dea), spesso erroneamente identificata con Gaia, la Madre Terra (la Magna Mater romana). In essa troviamo: la Giovane, (Brigid, Nimue, Durgā, Verdandi) pura e rappresentazione del nuovo inizio; la Madre, (Aa, Ambika, Cerere, Astarte, Lakshmi, Urd) generatrice della vita, disponibile e compassionevole; la Vecchia Saggia, (Hel, Maman Brigitte, Oya Yansa, Skuld, Sedna, Kālī) il culmine della vita nella totale conoscenza ed esperienza. È chiaro, a questo punto, come tali aspetti rappresentino il ciclo della vita: nascita, vita e morte, che si riproducono all’infinito in un cerchio continuo. In “La dea bianca” Graves scrive: “La Luna nuova è la dea bianca della nascita e della crescita;/la Luna piena, la dea rossa dell’amore e della battaglia;/la Luna calante, la dea nera della morte” e identifica il triplice aspetto della Dea con le tre fasi della Luna mentre la Cianciulli scrive: “Madre raccontami/raccontati terra gravida al seno/che ha custodito l’attesa in solitudine/le mani incollate alla vita/simbiotica del tempo/ che invera la sua pienezza/ Ti prego non dirmi/ delle tue notti insonni/ senza l’odore del tuo uomo/ era già in te il latte/ che sarebbe diventato il mio latte/ Madre/ non c’è distacco nella forma che muta/ si ricompone la bellezza/ naufraga il nostro sacrificio/ si consuma nello Stupor di corpi scissi/ e stringerò solo il sapore del pane.”

Si ravvede così la generatrice della sua vita, la madre, da cui ha preso le sembianze, e da cui prospetta nuova vita legata simbioticamente al tempo che concede origine e fine alle esistenze, tutte, e senza alcuna distinzione. Da quella madre, che diventerà la Vecchia Saggia, ella prenderà le forme che la porteranno ad essere Giovane e Madre a sua volta, in questo senso il cerchio infinito si chiude e si apre come in una danza lucida e umbratile al tempo stesso che si tuffa negli abissi più profondi per riemergere a respirare nuove vitalità: “Si dissipano le ombre/fra le mura rosate del vespero/ hanno svelato la ragione/ alle trame della notte/ al fontanino che gocciola i giorni/ al vecchio inarcato/ che lascia i suoi graffi sulla sabbia/ e il vento è passato a levigare/ Ora rugiada di buon mattino/ ingoiata dall’abbraccio degli abissi/ Ritornerà a baciare la luce il silenzio/ e i miei venti leggeri/ in questa osmosi saziano il cerchio/ È al di là che naviga il respiro/ più intenso del mare.”



Maria Gabriella Cianciulli
nasce a Montella, un paese dell’entroterra irpino, dove tuttora vive. Consegue la maturità magistrale e l’abilitazione all’insegnamento per le scuole primarie. Il suo percorso poetico prende forma con la pubblicazione della sua prima raccolta Echi di maggio, un atto di riconciliazione del proprio vissuto con il reale attraverso la natura, compagna e musa ispiratrice.

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