Il tunnel del presagio

Ucraina, energia, sanzioni a Mosca, sostegno a famiglie e imprese, immigrazione, grandi dossier. Tante voci, troppe parole. Ascolto un podcast di una radio che informa 24 ore su 24 mentre cammino verso casa.
È tardi, tutti cenano o si rilassano con un aperitivo alla “Milano da bere” e invece io esco dal buco della metropolitana dopo una delle solite, intense giornate di lavoro.

Milano ti trascina senza concederti pause, si corre per stare al passo con l’efficienza, la puntualità, gli appuntamenti, gli eventi, le sinergie delle quali non si può più fare a meno se si è liberi professionisti, consulenti o precari.
Milano ne è piena. Cavalli al galoppo, animali nella giungla, si lotta per la sopravvivenza.

Flussi migratori in aumento, fonti energetiche secondarie, nucleare, atomica, siccità, sovrappopolazione, Europa, Cina, Stati Uniti, Iran.

Il giornalista che ascolto mi inonda di notizie di politica e di economia, la app trasmette podcast con interviste, analisi, opinioni di esperti su macrotemi e questioni globali.

Mentre ascolto teorie e massimi sistemi, percorro come al solito un tratto di strada sotto un ponte che collega la stazione di Milano Lambrate al quartiere nel quale vivo.
Rimango colpita da qualcosa che fino a quel momento non c’era mai stato: una fila di materassi dismessi accatastati uno accanto all’altro e sommersi da una montagna di coperte rotte, cani, scatole di cartone, sacchetti di plastica contenenti residui di cibo e di bevande, stracci.

Solo dopo aver superato i primi due “letti”, scorgo la presenza di corpi umani, sdraiati o seduti contro il muro, che spuntano da quel groviglio di miseria.
Non si tratta dei “soliti” clochard che popolano la città metropolitana, molti dei quali sono anziani, stranieri o immigrati.

Ebbene no, si tratta di ragazzi della porta accanto, i nostri figli o i nostri nipoti, giovani, giovanissimi che invece di essere a casa a guardare una serie di Netflix, hanno deciso di finire lì, per terra, sotto un ponte maleodorante e malsano della periferia di Milano.

Spengo la app.

I loro occhi mi affrontano senza indugio, mi trafiggono mentre il mio passo rallenta sempre di più nell’intento di comprendere chi sono, da dove arrivano, perché sono lì in quelle condizioni.

Non parlano, si ignorano, qualcuno legge, qualcuno dorme. Chi non fa nulla tiene lo sguardo fisso verso il muro di quello squallido e lurido sottopassaggio.
Ma perché hanno scelto di stare lì? Sono ragazzi normali, i nostri ragazzi! I cani li scaldano.

Scelgo gli occhi meno assenti e meno apatici, un ragazzo che accenna a un sorriso. Si chiama Claudio.
Non riesco a trattenermi dal chiedergli se sta bene, se ha bisogno di qualcosa, perché si trova lì.
È un ragazzo come tanti, potrebbe essere mio figlio.
Il suo sorriso si estende e gli occhi gli si illuminano, Claudio non esita a rassicurarmi che va tutto bene.
Ma come va tutto bene?!
Non può andare bene a uno che potrebbe essere mio figlio e che si è accampato alla disperata sul marciapiede lurido di un tunnel pieno di schifezze e di smog (visto che ci transitano pure le auto, i bus e i tram).

In pochi secondi mi faccio mille film, mille domande, mille pensieri mi invadono la testa. Sono curiosa, voglio sapere tutto.
A 22 anni si scopre il mondo, ci si innamora, ci si diverte, si costruisce la propria vita, costi quel che costi. Studio, lavoro, sacrifici, rinunce, delusioni, sconfitte, gioie, passioni, sogni, desideri, lotte. Non si può essere sotto al ponte di Lambrate!

Gli faccio domande, lo interrogo, lo invado e lui ci sta.
Gli dò risposte, pretendo spiegazioni, mi agito come se fosse davvero figlio mio.
Claudio non mi nega né sguardo né sorriso né risposte e quando finisco la romanzina e la lista dei “perché ” , dei “come mai”, dei ” ma è possibile”, lui mi guarda teneramente (come si guarda una mamma apprensiva) e mi dice:

“Tranquilla, siamo qui per scelta. Ma soprattutto siamo qui, nel tunnel, prima che la vita potesse deciderlo per noi. Vogliamo essere noi a scegliere. Non vediamo futuro, siamo al buio totale e allora buio sia! Vedi quel ragazzo al terzo materasso? Ha perso quattro lavoretti precari dopo aver conseguito una laurea, un master e dopo aver fatto quattro stage. Ha 26 anni. Non trova altro che lavori sfigati.
Io non ho più risorse per pagarmi gli studi e, non potendo contare sulla famiglia, preferisco mollare e alleggerirli. Il mondo del lavoro è peggio di una savana dove se non divori il tuo simile soccombi. Io non sono così. Sono laureato in comunicazione e sai cosa significa oggi se non hai almeno un master. Sono provato.Ho bisogno di staccare.
Qui siamo tra noi, ce la passiamo e guarda che non siamo gli unici a Milano. Se vai in giro per le periferie ne trovi. Le nostre famiglie sono quelle perdenti e invisibili e questa è la nostra unica certezza. Ne parlano pure i tg tutti i giorni!
Per ora siamo qui, visto che non riusciamo nemmeno a far sognare i nostri genitori, meglio prendersi una pausa e concederla anche a loro”.

Ma come una pausa? Così siete nel baratro! Non ci si può arrendere a vent’anni.

“Il baratro è scritto e noi anticipiamo solo i tempi. Uè, non ci droghiamo, eh!
Le nostre famiglie ne hanno già abbastanza di problemi, uno in più non li ammazzerà. Capito?”

Rimango sbigottita, ma rispondo di sì e gli sorrido.
A prescindere da quello che faranno o non faranno, volendo considerare il tutto come una esagerata forma di protesta che, spero, non avrà seguito, le parole di Claudio e quel set di ragazzi che si annullano a causa del disagio sociale, mi colpisce al cuore e non solo: urta il buonsenso.

Una resa premeditata, la metafora del fallimento, il tunnel della mancanza di speranza e di forza di reagire al destino, l’esperienza del toccare il fondo prima ancora di averci provato, sono una realtà inaccettabile sulla quale riflettere.
Per loro è una sfida, forse un “gioco” per attirare l’attenzione, per me è semplicemente inquietante.

Nel frattempo, ho riavviato il podcast e mentre il giornalista finisce il suo approfondimento sui grandi temi globali, salgo le scale e rimugino quanto ho appena ascoltato da quel giovane buttato a terra, sotto un ponte, a Milano.

Entro in casa con la voglia di tornare nel tunnel a parlare con quei ragazzi, a dire loro che non funziona così.
Ma da che pulpito? Con quale coraggio e quali motivazioni?

Sono passati tre giorni e non ho più percorso quel tragitto. Ho evitato.
Purtroppo il verbo “evitare” significa ignorare, che è sinonimo di trascurare e sottovalutare.
Non considerare un fenomeno come quello del disagio dei nostri giovani, della resa e della perdita di entusiasmo, di passione, di coraggio e di speranza è una sciagura.

Auguriamoci che in questo delicato momento storico non venga meno in noi la lucidità per affrontare questo disagio che sta contagiando sempre di più i ragazzi che popolano le nostre periferie e che, ahimè, non hanno nulla da perdere.

Ben ritrovati!

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