Asia Sud Occidentale, la Formula 1 del futuro

Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Arabia Saudita: terre di califfi, sceicchi, perle e pirati, luoghi occupati, ambiti, “protetti” e diventati Stati indipendenti grazie al Dio Petrolio.

Questa parte di mondo affacciata sul Golfo Persico mi ha sempre messa in difficoltà dal punto di vista della comprensione delle dinamiche geopolitiche, sociali, religiose, economico-finanziarie, a mio parere di non facile lettura.

In generale, la storia e la cultura dei popoli arabi e della religione musulmana, in particolare, mi hanno sempre messa in soggezione per la loro complessità.
Seguo da anni voci di studiosi, analisti, giornalisti attivi sul campo, scrittori, politologi, ma ammetto di aver sempre fatto fatica a capire le motivazioni delle tensioni, delle guerre, delle alleanze che hanno contribuito di volta in volta all’affermazione o alla repressione di questi “popoli del deserto”, diventati più o meno ricchi e potenti, più o meno capaci di intrattenere o di mettere in discussione le relazioni con l’Occidente e con il resto del mondo.

Nelle mie attività professionali in ambito moda e lusso, ho avuto l’opportunità di confrontarmi con donne e uomini mediorientali di cultura araba e di religione musulmana. È stata un’esperienza decisamente molto particolare e oggi, reduce per la prima volta da una trasferta lavorativa ad Abu Dhabi, mi sono soffermata su qualche riflessione.

Si tratta di persone e di personalità molto dominanti, padroneggianti e a volte ambigue ed enigmatiche.
Il loro stile professionale, in particolare nell’ambito commerciale, si basa su un senso di superiorità derivante, ovviamente, dal loro indiscusso potere economico, ma non solo.

Qualche anno fa, al tavolo di lavoro di un prestigioso showroom di moda, una delegazione di noti e potenti buyer del Qatar e del Kuwait, mi hanno messa alla prova professionalmente e umanamente come nessun altro cliente aveva mai fatto prima.

I buyer mediorientali sono i padroni assoluti dei preliminari di una trattativa commerciale, ancorché già impostata da un contratto sottoscritto.
Il loro approccio è asciutto, vanno immediatamente al sodo, non amano ascoltare, vanno dritti al loro obiettivo.
Se non comprendi questo aspetto, non lo sposi e non permetti loro di condurre il gioco, sei finito.

Si tratta di un meccanismo piuttosto sofisticato nel quale, per raggiungere un target già prefissato, bisogna passare comunque attraverso una trattativa “berbera”. Non sopportano obblighi e imposizioni, la parola “budget” li indispone, non gradiscono prassi e metodi aziendali convenzionali.

Tuttavia, mai porsi in modo troppo remissivo. Se questo accade, non ti considerano più alla loro altezza, si irritano, si irrigidiscono, al punto di rifiutarsi di lavorare con te.

Per mia esperienza, nel mondo del lavoro dei grandi brand, i clienti mediorientali hanno sempre voluto uno confronto “tribale”, anche dopo aver già valutato determinati accordi economici proposti precedentemente dalle aziende.

Il mondo del lusso e della moda ha dovuto adeguarsi.
Quando arrivano in Italia, i clienti della moda mediorientali vanno accolti e gestiti con un’empatia smisurata, ma soprattutto con professionalità e preparazione.
Amano il made in Italy, ma non tollerano di essere trattati come gli altri clienti, a costo di rinunciare ad un brand.
Non tollerano l’improvvisazione, pretendono il meglio e chiedono di essere seguiti e assecondati in ogni loro richiesta: dal cibo, alla location, ai collaboratori messi loro a disposizione che devono corrispondere esattamente alle caratteristiche sopra descritte.

Quando entrano in una showroom, quasi sempre in delegazione, bisogna attivarsi in modalità “super smart”, entrare nella loro mentalità e accettare di essere messi alla prova più che altrove.

Quando si lavora con gli uomini, si parte da una diffidenza atavica che essi manifestano nei confronti della donna occidentale, nonostante le cose siano migliorate negli ultimi anni.

Per “affrontarli” sono necessari distacco ed empatia, ma soprattutto velocità, sicurezza, preparazione.
Devi essere pronta a rispondere senza esitazione e con la massima precisione, altrimenti non ti rispettano.
Se il ghiaccio si rompe nel verso giusto, nel giro di pochi minuti la strada si apre e “l’acqua inizia a scorrere”, sorprendentemente, attraverso ogni piccolo foro della loro corazza.
Si diventa complici, ci si guadagna la stima e ci si assicura un appuntamento durante la prossima campagna vendite.

Ci sono clienti mediorientali che prenotano le “sales account” per la stagione successiva, se si sono trovati bene. In caso contrario, è addirittura il brand a essere messo in discussione.

Anche quando si ha a che fare con le donne di cultura araba la diffidenza è il loro biglietto da visita principale. La leggi stampata nei loro occhi, i loro sguardi sono coltelli profondi, unici, indimenticabili.
Tutte le donne arabe che ho incontrato per lavoro, le buyer giovani o meno giovani, mi hanno sfidata.

Ti sfidano culturalmente e professionalmente più di qualsiasi altra donna.
Un gioco molto sottile, se non lo accetti hai poca possibilità di concludere una vendita.
Quando capiscono che sei pronta alla sfida e che non temi confronto, allo stesso modo degli uomini, ti rispettano e ti offrono i loro pistacchi.
Non ho mai visto così tanta frutta secca buttata sui tavoli durante le riunioni di lavoro!

Le donne arabe sono bellissime anche nelle loro imperfezioni e nelle rotondità nascoste.
Sono curate nei minimi dettagli, femmine e femminili anche sotto Jilbab o Burka.

Dopo essermela cavata tra le mura degli showroom in ore e ore di lavoro, cercando di immaginare come potessero essere le stesse donne e gli stessi uomini nei loro Paesi di origine, finalmente qualche settimane fa è arrivato il mio primo viaggio negli Emirati Arabi Uniti, ad Abu Dhabi.

L’impatto è stato emozionante, l’atterraggio nel deserto urbanizzato da edifici avvenieristici un’esperienza immortalata in un video.

Lo sbarco, l’impatto con una luce accecante a novembre, la percorrenza di grandi strade costeggiate da palme e aiuole fiorite, lo skyline di Abu Dhabi, rappresentano un’opulenza del tutto particolare.
Non esiste un elemento che riporti alla nostra realtà e alla nostra normalità quotidiana, a partire dai dettagli dell’aeroporto.
È tutto perfetto, la cura è maniacale, lustro ovunque.

Si rimane immediatamente sorpresi dalla cordialità delle migliaia di immigrati provenienti da Pakistan, Africa, Bangladesh, India, Egitto, Cina, che vivono e lavorano negli Emirati Arabi Uniti in condizioni privilegiate.

Ad Abu Dhabi vige la legge della sicurezza, la città è considerata il posto più “safe” del mondo.

Il Dio Petrolio ha creato stabilità e privilegi e gli Emiri, in particolare la dinastia che da decenni governa i sette Emirati, distribuiscono ricchezza, offrono opportunità, accolgono persone e modernità.

Abu Dhabi è la capitale dei sette Emirati e non è come Dubai: è meno mondana, meno commerciale, meno scenografica e più di sostanza.
Oltre al turismo, si respira aria di grandi affari, di alta finanza, di mediazioni, di visite di capi di Stato, di alta diplomazia.
Da alcuni anni questa città ospita grandi eventi sportivi internazionali come il Gran Premio di Formula 1, attirando investitori, partners e visitatori provenienti da ogni parte del mondo.

L’urbanizzazione e l’edilizia di alto livello ne fanno una delle città più moderne del mondo con contaminazioni architettoniche e stilistiche di grande attrazione.

E gli abitanti indigeni? In proporzione agli immigrati sono un numero molto contenuto.
Disciplinati, appartati, chiusi nel loro “Stato Sovrano”, sono impegnati in una vita tra grandi “mall”, ristoranti, boutique e brand del lusso, centri commerciali, spiagge pubbliche ordinate.
I cittadini degli Emirati Arabi sono praticamente mantenuti dall’Unione, godono di un sistema sanitario e di istruzione di altissimo livello, molti di loro studiano all’estero nelle più prestigiose Università internazionali. Viaggiano spesso anche per piacere tra le capitali europee e i posti più “cool” del mondo, soprattutto nei mesi estivi di caldo ingestibile. Il Dio petrolio ha permesso e permette loro tutto questo.

In questa città ho sorprendentemente trovato ordine, silenzio, strade semi deserte di sabato pomeriggio, nonostante in questa stagione il clima sia più moderato.
Una città frammentata e distribuita su decine di isole collegate tra loro da ponti, una popolazione legata alla cultura millenaria e alle tradizioni religiose, ma allo stesso tempo aperta, accogliente, estremamente moderna.

A prescindere dalla ricchezza e dallo sfarzo che regnano indiscussi, ho toccato con mano il desiderio di offrire cultura, modernità, intrattenimento di alto livello sia alla popolazione locale sia ai visitatori.

Guidati dallo spirito di ambizione proveniente in primis dalla famiglia degli Emiri Al Nahyan ( la dinastia di Abu Dhabi che sta alla guida degli E.A.U a partire dalla loro fondazione), gli Emirati Arabi Uniti ospitano un mondo in continua crescita ed evoluzione.

Si tratta di una monarchia assoluta a caccia di opportunità da cogliere e da restituire per il progresso e per la crescita sociale, oltre che economica e finanziaria.
Ciò non mi stupisce, così come non mi hanno stupito il senso di appartenenza, l’ambizione e la determinazione di quei buyer che ho conosciuto a Milano e con i quali, dopo un po’ di fatiche, ho instaurato ottime relazioni.

Questo viaggio conclusosi da poco è stato un faro illuminante, la conferma di quanto avevo immaginato, una crescita del mio senso critico, della percezione e della conoscenza di un popolo del quale, fino ad oggi, avevo solo letto storie, racconti, cronache e analisi altrui.

Siamo nel bel mezzo dei Mondiali di calcio 2022 che si stanno svolgendo in Qatar. Tra qualche polemica e qualche contrasto iniziale, una cosa è certa: l’Europa sta invecchiando mentre questa parte di mondo si sta attrezzando sempre di più per eccellere, per non perdere le opportunità, per entusiasmarsi nei confronti di una modernità e di un futuro che corrono sempre più veloci.
Proprio come la Formula 1.

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