Disperazione ed orrori infiniti

Le parole di Dante rispondono e mutano per natura e qualità in relazione all’argomento trattato. E così’ sono espressioni dolci nel canto di Paolo e Francesca, che accorrono al richiamo “quali colombe dal disio chiamate”; o quando Francesca parla della sua terra nativa e dell’amore che “al cor gentil ratto s’apprende”, che “a nullo amato amar perdona”; e persino che condusse ad un’unica morte i due peccatori amanti; o se parla di quel bacio sul “disiato riso”, suggerito dalla lettura di un “libro galeotto”.

Ben diverse sono, invece, le parole del Poeta quando presenta la tragedia toccata al conte Ugolino della Gherardesca, fatto morire di fame, insieme a due suoi figli e due nipoti, nella torre in cui erano stati rinchiusi col tradimento dell’arcivescovo Ruggieri.

Qui tutta la scena della commedia è occupata dall’odio e dalla disperazione che inducono Ugolino a rosicchiare, da cannibale, il cranio dell’antagonista Ruggieri, sollevando la sua bocca dal “fiero pasto” solo per confidare a Dante il proprio “disperato dolore”, che prova già al pensiero dell’accaduto, prima ancora di parlarne al Poeta per far così aumentare l’infamia “al traditor ch’io rodo”.

Essendo un fatto già noto, l’Ugolino non ritiene di dover ricordare come sia stata realizzata la sua uccisione da chi ebbe a tradire la sua fiducia (“dir non è mestieri”). Ma ciò che Dante non può ancora aver appreso è la tragedia che accompagna la sua stessa fine, per aver dovuto partecipare alla morte per fame degli innocenti suoi due figli e due nipoti, per causa sua e per l’altrui bestialità, nel chiuso della torre. Potrà così il Poeta giudicare quanto la sua morte sia stata efferata (“saprai s’e’ m’ha offeso”),

L’incubo di un sogno premonitore, il suo forzato silenzio dinanzi alla fine che si avvicinava, la disperazione dei suoi piccoli, che non potevano comprendere appieno il perché di quella loro sorte, accompagnavano la scena che, per la sua atrocità, non avrebbe dovuto risparmiare a nessuno la commozione (“Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli/ pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;/ e se non piangi, di che pianger suoli”?).

Poi venne da loro al disperato genitore l’estrema proposta: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia”.

Al silenzio doloroso che ne seguì, il Conte esclamò nel suo racconto “Ahi dura terra, perché non t’apristi”?”

La delirante sofferenza degli affamati aumentò col passar dei giorni, sino a farli cadere, l’un dopo l’altro, ai piedi del Conte, che continuò a brancolare, nel buio della morte, sui corpi dei suoi, come per continuare a riconoscerli e tenerli in vita con sé.

Ma la fine di tutto non tarda ad arrivare, racchiusa nel problematico verso “Poscia, più che il dolor, poté il digiuno”.

Cessata così la triste narrazione, riprende nell’Ugolino l’accanimento nel rosicchiare coi denti fino all’osso il misero teschio del Ruggieri. E si infiamma in Dante l’indignazione contro Pisa (“vituperio delle genti del bel paese dove il sì suona”) per aver consentito di coinvolgere nella punizione del tradimento attribuito al Conte, pur senza colpa, anche i suoi giovani discendenti.

Il Poeta, infatti, con tono iperbolico, invoca che si smuovano le vicine isole Capraia e Gorgona ad ostruire la foce dell’Arno “sì ch’elli annieghi ogne persona”.

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