L’INFINITA NOTTE DI KABUL

È sempre bello e stimolante avere il modo di interagire con gli altri, pure quando ciò avviene, come ultimamente, anche per via della pandemia, tramite i media o i social, abbattendo così ogni confine e distanza.

È bello perché avere il modo di esprimere le proprie opinioni consente di dare forma e voce a sensazioni provate ad uno stato solo latente ma che comunque ci hanno provocato un tumulto di emozioni.

Ma anche perché comunicare ci permette di conoscere differenti punti di vista che possono rafforzare i nostri o, al contrario, ammorbidirli.

È l’importanza della condivisione: ci fa crescere, confrontare, riconoscere i nostri limiti.

Ci avvicina, ci fa viaggiare ad ogni latitudine ed esplorare, così, anche culture a noi lontane.

È questa la vera risorsa dei tempi moderni: viaggiare e conoscere a trecentosessanta gradi.

Peccato che da qualche giorno, tramite la televisione, siamo stati catapultati su una terra che ha conosciuto in passato solo guerre e violenza e che ora, a distanza di anni, rivive la stessa disperazione, annullando ogni minimo tentativo di ripresa e costringendo il popolo a nuove “transumanze”.

Oggi siamo tutti in Afghanistan, sgomenti ed attoniti.

Credevamo che nel 2021 qualsiasi guerra potesse essere ormai fuori luogo, che tutto il pianeta si stesse “civilizzando”, che il mondo orientale e quello occidentale potessero interagire sempre più per una continua e reciproca crescita.

Invece, all’improvviso su Kabul si è fatta notte fonda.  “I giorni, qui, sono uguali forse per un orologio, non per un uomo” (M. Proust).

E in questo inaspettato black out abbiamo iniziato una comunicazione virtuale e dolorosa con il popolo afgano, quelloche abbiamo visto correre in fuga o appendersi disperatamente all’aereo ed inesorabilmente cadere nel vuoto.

È un’immagine questa che non ci lascia indifferenti.

Ci costringe a guardare una realtà aberrante racchiusa tutta anche negli sguardi delle donne e dei bambini di quei luoghi che ci parlano di paure, orrore, disfatta, senso di abbandono, ci parlano del timore delle donne, purtroppo reale, di essere uccise, di subire violenze, di non potere più frequentare l’università; insomma di non poter avere più una vita pseudo normale.

E intanto, in questo quadro di disperazione, i Capi di Stato del mondo intero, chiusi nella loro “comfort zone”, dopo aver fatto rientrare in fretta i propri diplomatici, trasmettono messaggi di partecipazione emotiva alla popolazione. Cosa che, ahimè, non sposterà una virgola in questa situazione paradossale.

Forse gli anni di guerra già vissuti e l’insegnamento dei diplomatici dei vari Paesi in terra afgana non hanno raggiunto gli obiettivi proposti se non è stato insegnato che il progresso, secondo l’etimologia latina del termine, non significa andare avanti, ma soprattutto non approfittare del proprio potere per fare ciò che si vuole senza curarsi del rispetto delle regole della convivenza civile e delle conseguenze che le azioni di chi lo detiene hanno sulla popolazione intera.

Il progresso, insomma, da qualche parte è ancora una chimera.

Vorrei, dunque, sì sperare di viaggiare ancora tanto, ma non dove trovo guerre e gli occhi disperati di un popolo.

E penso che, è vero, ci vuole fortuna anche per il luogo in cui si nasce, per quanto “ciascuno ha il suo Sinai ed anche il suo Golgota” (Eraclito).

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