Fine cena

Poesia scelta: Fine cena
Autrice: Carla Cenci

Da un arto imprecisato poi la neve
discese sopra la tavola un conto,
un tramestio negli occhi verso il freddo
di quel che rimaneva. Improvvisa
dei lampadari spenti fu una luce
sopra i piatti di mele appena morse,
delicati staccarono le bocche
i camerieri via, da ogni cucchiaio,
e il sorriso sbeccato sui bicchieri
per poco ancora, il giusto di partire.


– A cura di Emanuela Sica –

Lievemente, con la stessa delicatezza di una nevicata improvvisa, con le sue movenze soavi di frescure inattese, su calme – e per alcuni versi rassicuranti – note di quiete, la poesia si muove dall’intimo sentire della poetessa, lasciando inalberati i sogni e le circostanze del presente, per arrivare sin dentro la percezione empatica di chi legge come se, materialmente, si creasse la scenografia di una tavola, per un convivio ormai concluso, appunto un “fine cena”.
Eppure il titolo evidenzia, con immediatezza e slancio di repentina chiarezza, la limpida location, senza sovrastrutture o quarte di mezzo, di quella che è la realistica rappresentazione della vita di ogni essere umano. Fluido scivola un leitmotiv di una catarsi emozionale e, altresì, sentimentale che respira immanente nelle parole che sono “apparecchiate” come se si dovesse, da un momento all’altro, assistere ad una “rivelazione” che, per forza di cose, entra in locus quando il tempo ha la sua pausa più lunga. Quando il respiro si placa, quando la carne è muta davanti alla legge – severa ma egualitaria – della natura, ecco che l’immagine della tavola, simbolicamente incapsulata nella reminiscenza di quell’ “ultima” e famosa “cena” – in cui il progetto divino già aveva esternalizzato il significato sacrificale del pane spezzato e del vino bevuto in ragione di un compito da adempiere per la salvezza delle umane genti – unita al relativo conto da pagare, agli occhi dei commensali che si scrutano come a voler capire chi di loro debba prendere in mano quel “pezzetto di carta” rivela, appunto, l’ineluttabilità dell’appuntamento con il disegno dei nostri passi, dei nostri momenti soggettivi, nella traiettoria della conclusionale parabola di quel “qualcosa” che molti chiamano “esistenza”.
In effetti il “calcolo matematico” di cui si parla non è quello che viene generato dall’economia del locale (ossia il conto “dell’oste”). Invero la somma, di quanto si è “speso” per prendere parte a quel “banchetto” (frugale o meno che sia), viene fuori dal libro del fato o della sorte, appunto predestinale assioma di vita il quale pretende che sia indicato chi paghi per averla vissuta, non sappiamo se per averla bevuta e deglutita, metabolizzata, fino in fondo o soltanto “annusata” per un margine di tempo.
E non c’è un ordine prioritario o successivo nella decisione finale, perché nessuno può decidere se pagare o meno, il finale sul piatto d’argento o di terracotta, arriva con la stessa velocità con cui la luce si spegne, e quello che non si è riuscito ad addentare, come le “mele appena morse”, in cui si è appena intinto il sapore nei denti, nella bocca, sulla lingua, sarà impossibile da carpirne nella consistenza in termini di gusto, di nutrimento.
Quello che è stato è stato e quello che non si è fatto proprio, assaporato, nessuno potrà dirci com’era o come poteva essere. Il palcoscenico della rappresentazione è la vita nella sua accezione terminale, la morte e le sue avvisaglie – o le sue improvvisate – come se fosse teatralmente servita da “affaccendati” camerieri che sbrigano velocemente le conclusive faccende di un servizio per togliere (eliminare) quello che rimane a tavola. La morte stacca, per questo, i sorrisi dai calici per parte sbeccati dalla falce che scende a tagliare in due il tempo, per lasciare al passato il conto del presente ormai non più capace di venir coniugato al futuro.
E non vi è ingiustizia alcuna in questo naturale “decesso” [un fatto che ha luogo nell’ordine delle cose e nel suo rapporto specifico con l’esistenza umana]. Ogni volta che si parla della morte in questo senso, come di un fatto naturale accertabile con procedimenti appropriati, s’intende la morte come decesso. Lo stesso accade quando si considera la morte come una condizione dell’economia in generale della natura vivente o della circolazione della vita o della materia è così via.
Marco Aurelio parlava, in questo senso, dell’uguaglianza degli uomini di fronte alla morte: “Alessandro il Macedone e il sugo mulattiere, morti, si ridussero allo stesso punto: o riassorbiti entrambi nelle ragioni seminali del mondo o entrambi dispersi fra gli atomi” mentre Shakespeare asseriva: “Alessandro morì, Alessandro fu seppellito, Alessandro ritornò in polvere. La polvere è terra e con la terra si fa l’argilla e perché quell’argilla in cui egli fu trasformato non potrebbe diventare un tappo o per balie di birra?”.
Di fronte alla morte così intesa Epicuro diceva: “Quando ci siamo noi, la morte non c’è; e quando c’è la morte noi non ci siamo” mentre Sartre precisava l’insignificanza della morte: “La morte è un puro fatto, come la nascita; essa viene a noi dall’esterno e ci trasforma in esteriorità. In fondo, essa non si distingue in alcun modo dalla nascita ed è l’identità della nascita e della morte che noi chiamiamo fatticità “.
Per tali ragioni la morte può essere intesa come inizio di un ciclo di vita che dà origine all’immortalità dell’anima – Platone diceva: “la separazione dell’anima dal corpo” e Plotino diceva: “Se la vita e l’anima esistono dopo la morte, essa è un bene per l’anima perché essa esercita meglio la sua attività senza il corpo. E se con la morte l’anima entra a far parte dell’Anima universale, che male può esserci per essa?” – oppure come fine di un ciclo di vita – Marco Aurelio lo intendeva come riposo o cessazione dalle cure della vita “il riposo dai contraccolpi dei sensi, dai movimenti impulsivi che ci tirano qua e là come marionette, dalle divagazioni dei nostri ragionamenti, dalle cure che dobbiamo avere per il corpo” .
Con la morte, in altri termini, la vita diminuisce e scende a un livello inferiore a quello dell’appercezione o coscienza, in una specie di stordimento ma non cessa. Heidegger invece considerava la morte “come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa è, come tale, indeterminata e insuperabile” e poiché ogni possibilità può, come possibilità, non essere, la morte è nullità possibile di ognuna è tutta le possibilità esistenziali; in questo senso, Merleau Ponty dice che il senso della morte è la contingenza del vissuto, cioè la minaccia perpetua per cui i significati eterni in cui esso crede di esprimersi per intero.
In questa lirica la poetessa esprime un proprio senso del trapasso come “il giusto di partire” ossia come la necessaria e obbligata conclusione di ogni cosa, nel distacco dal mondo della realtà, ma che dà origine ad un viaggio verso altri mondi. Il termine “partire” indica appunto che la morte non è la fine ma un viaggio verso altre direzioni, sin qui sconosciute. E allora la poetica scuce l’esistenza del corpo per riannodare i fili dell’immortalità dell’anima che si libera dai suoi pesi materiali per essere più leggera nel distacco dal mondo dei viventi per una destinazione sconosciuta. Quella scissione dell’anima dal corpo per poi ricongiungersi con l’anima universale e infine – probabilmente – trasmigrare in un altro corpo oppure incamminarsi verso la luce di salvezza eterna o dannazione perpetua.

Carla Cenci è nata a Roma, dove attualmente vive e lavora. Dopo studi di filosofia, con una laurea su R. M. Rilke, si è appassionata alla poesia, partecipando alla redazione di riviste letterarie e a collaborazioni critiche. Suoi testi sono stati pubblicati su riviste e su sillogi di premi letterari.

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