Madre

Poesia scelta: Madre
Autrice: Maria Mammola

Antico
nel ventaglio dei secoli
in sella a venti buoni
si specchia il tuo sorriso
in cui è infinita poesia.

Non chiedi nulla
se lievita la neve
in un petalo di respiro
dove si spegne la bufera.

In punta di piedi
vibra intensa la tua anima,
semini rose senza spine.

La mia mano nella tua
davanti al sole
dissolve l’ombra,
palcoscenico di fiori di ogni voce.

A cura di Emanuela Sica
L’emozione di queste note poetiche risalgono alla gola e si espandono per tutto il corpo. Si riesce quasi a “vedere” quella materia vitale che si evolve nel ventre della madre e che, una volta venuta al mondo, crea una sinfonia d’amore e meraviglioso stupore mitigando la dolcezza della piuma e la profondità della poesia in un sorriso che diventa infinito, così come senza confini e senza tempo è la lirica che si “crea” in onore di chi ci ha “creati”.
La figura della madre, quella che custodisce nel suo seno il miracolo della vita, che nulla chiede e nulla pretende ma che si dona completamente a chi verrà, diventa cibo, aria, nutrimento per il nascituro, capace finanche di cedergli la sua vita in cambio della sua nascita.
Le movenze dell’anima e del cuore di questa sono tutte insite nel petalo di respiro che spegne la bufera, una metafora utilizzata, a mio parere, per evidenziare quanto una genitrice riesca a calmare ogni nostra paura, ansia…semplicemente “esistendo”.
In questa concezione assoluta della grandezza della figura materna si innesta la poetica dell’autrice che, partendo dal suo legame privato, crea una lirica universale che potrebbe ben rappresentare l’essenza di ogni madre e la percezione che ha di lei ogni figlio o figlia.
Ci si rispecchia in quel mare di rose senza spine che avvolgono di un inebriante profumo i successivi versi che, con la romantica passione del donare senza richiedere una contropartita, danno il senso del tempo che si ferma davanti ad un amore che non può essere quantificato se non definito nella sua immensità.
Incapace di rinchiudersi in un limite precostituito così come la vibrante anima che emerge dalla madre è incapace di diminuire la costanza dell’affetto ma è predisposta a slanci sempre maggiori di generosità, mai paga di dare e dare sentimento puro e autentico d’appartenenza. Si muove così, in punta di piedi, la voglia di dedizione e rispetto della poetessa verso colei che le ha donato i natali, quella vita che scorre nelle sue vene è ancor prima il sangue di chi le ha permesso di essere carne e spirito nel nuovo mondo.
In quell’esterno universo di sole e luna, di aria e acqua, di terra e fuoco, di bellezza e brutture, di gioia e dolori, di felicità e agonia, che chiamiamo vita. In questo caso la poesia sembra una preghiera di ancestrale caparbietà, di elegante ritmo cardiaco, di miracolosa fonte dissetante per tutti coloro che hanno avuto una madre, sia quando è capace di dare vita sia quando non lo è ma è, per contro, sovrabbondante di maternità.
Cosa voglio dire con quest’ultima notazione? Per essere madri non basta mettere al mondo una vita. C’è bisogno di essere quella vita. Di creare con quella un legame che va oltre il sangue e la materia di cui si forma e si trasforma nell’evoluzione dall’embrione all’essere umano. Per questo spesso non è madre chi mette al mondo un bambino ma chi quel bambino lo tratta come se fosse un pezzo della sua stessa vita che cammina su altre gambe, che guarda il mondo con altri occhi ma che fa parte integrande dell’anima che lo osserva da lontano, ancor prima che lo protegga e lo indirizzi nei suoi passi immaturi.
È quindi una poesia-preghiera che ben si lega anche alla figura di chi non è stata madre per volere di un ingiusto destino biologico ma lo è diventata per volere del cuore. Penso alle madri adottive, a coloro che, con coraggio estremo, dignità, sacrificio e incommensurabile sacrificio hanno scelto di essere madri per chi non aveva più una madre, un salto nel buio, direbbe qualcuno, un salto nella luce dell’amore autentico, dico io.
Per questo quando parliamo di madre dobbiamo intendere “non solo colei che genera biologicamente, piuttosto è bene mettere in risalto anche la sua funzione simbolica, che non si consuma solamente in quella biologica.” Freud vede nella madre “la prima soccorritrice”, colei che accoglie le prime urla del bambino; la madre è dunque accoglienza pura. Recalcati invece fa coincidere simbolicamente “la funzione materna all’immagine delle mani che sostengo, accolgono e si prendono cura dei primi anni dell’esistenza, che abbracciano la vita, successivamente riconosciuta dal padre”. Quando veniamo al mondo e per la prima volta guardiamo lo sguardo di nostra madre vediamo non solo lei ma anche noi stessi.
Lo sguardo che incontriamo può essere sereno, aperto, soddisfatto, mostrarci quanto noi esistessimo già nel desiderio di essere madre oppure può essere uno sguardo depresso, cupo, spento e che ci farà comprendere di non essere degni di amore da parte di chi ci ha messi al mondo. Diciamo che ognuno di noi cresce nel vero senso della parola, quindi si sviluppa, si umanizza, quando si “sente nel desiderio della madre, essendo oggetto di cure particolareggiate e non di una maternità che segue regole e comportamenti standard.” Questo perché la “funzione materna non conosce cure anonime” ma di attenzioni che rendano il bambino o la bambina esseri speciali e non simboli di massificazione. La storia del re Salomone, nel primo libro dei Re, rende, probabilmente più chiaro il mio pensiero. “Un giorno andarono dal re due donne che abitavano nella stessa dimora e che da poco erano diventate madri entrambe, si presentarono dinnanzi a lui e una disse che il figlio della ragazza che l’accompagnava era morto durante la notte perché questa vi si era addormentata sopra e che questa aveva posto su di lei, mentre dormiva, il figlio morto, prendendo invece quello vivo. L’altra donna replicò che non era vero, che il figlio morto non era dell’altra e che non vi era stato alcuno scambio. Allora il re ordinò di farsi portare una spada e disse che avrebbe tagliato a metà il figlio vivo e che avrebbe dato una parte all’una e un’altra parte all’altra. La madre del bambino si rivolse al re dicendo in lacrime di dare il bambino all’altra donna, mentre l’altra rispose che il bambino non doveva essere di nessuna delle due e doveva essere diviso a metà. Il re disse: “Date alla prima il bambino vivo. Questa è sua madre”. Questo breve aneddoto spiega come la funzione materna, non patologica, preferisca la vita del figlio senza proprietà rispetto alla morte di questo e si mette in evidenza, per contro, la figura di una madre che soffoca, schiaccia il figlio e il suo desiderio, quella che Lacan definisce la mamma coccodrillo, che finisce per ingoiare suo figlio.
Rabindranath Tagore diceva: “Il bambino chiama la mamma e domanda: “Da dove sono venuto? Dove mi hai raccolto?”. La mamma ascolta, piange e sorride mentre stringe al petto il suo bambino: “Eri un desiderio dentro al cuore.”
E allora la madre di questa poesia è una madre che: “come una trapunta sa tenere i figli al caldo, senza soffocarli”, che “ci tiene per mano solo per un breve periodo, ma il suo cuore ci accompagna per tutta la vita”, una madre che solleva e comprende, che allontana le ombre, “un cerotto di emozioni per un io ferito”.

Maria Mammola nasce a Nocera Inferiore (SA) ed inizia il suo percorso artistico negli anni ottanta recitando al fianco di Liliana de Curtis nello spettacolo ” Totò dietro le quinte”. Partecipa all’incisione del disco ” Varsavia Live ” dei Santo California come voce femminile. Il suo volto compare, successivamente, nei fotoromanzi sulla rivista Grand Hotel, al fianco di Massimo Ciavarro. Nel 2014 edita la prima raccolta di poesie con la casa editrice “Il Papavero”. Vincitrice di numerosissimi premi e riconoscimenti internazionali è traduttrice dallo spagnolo delle poesie di Hector Rasguido Espinosa.

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