Uno sguardo nel vuoto

“Ci sono esperienze che non si possono dimenticare, ma che non si possono nemmeno raccontare”.

Antonio è uno chef, fino al giorno prima del lockdown del marzo 2020 aveva un bel ristorante a Como. Una media di 150 prenotazioni al giorno in tutte le stagioni dell’anno.
Da 150 a zero, a causa del lockdown l’attività non si è mai più ripresa e oggi Antonio salta da un ristorante all’altro, da una cena privata all’altra, come free-lance. I suoi sei ex dipendenti, per il momento, non hanno più ritrovato un lavoro.

Mentre aspetta un mezzo di trasporto pubblico che lo porta a Milano per una trasferta di lavoro, facciamo due chiacchiere e mi dice di aver avuto una vita intensa, schizofrenica, molto movimentata, che pensava potesse essersi finalmente stabilizzata con il locale aperto qualche anno fa sulle sponde di uno dei laghi più affascinanti d’Italia.
Ma non è andata così, il Covid ha distrutto tutto ciò che gli era rimasto dopo il divorzio e dopo la perdita di entrambi i genitori.
Il suo spirito di sopravvivenza, unito alla tenacia, ha prevalso sul dolore e lo ha reso un guerriero quasi “impassibile”. Antonio si definisce un “essere corazzato” e inizia a raccontarmi seriamente di sé guardando improvvisamente nel vuoto.
Capisco che ha intenzione di spingersi oltre la vita familiare e che c’è qualcosa di grosso nella sua memoria.

“Essere così imperturbabile e cinico, dopo tante esperienze forti, non è buon segno. Sai perché? Perché non è sinonimo di bella persona”.

Rimango colpita da queste parole intense, pronunciate con lucidità e pacatezza, mentre guarda lontano e gli domando a cosa si riferisca. Antonio ha un momento di esitazione mista a imbarazzo, ma poi mi risponde:

“Dopo il servizio militare, negli anni ’90, sono stato per sette anni in Marina Mercantile. Sono un tiratore scelto e per questo ho partecipato alla guerra in Kosovo. Sono stato pilota di elicottero e ne ho viste e vissute di tutti i colori.
Provo orrore, rabbia, insofferenza e non accetto questa regressione. Mi indigna la bassezza dell’essere umano che continua a distruggere, autodistruggersi, fare guerre, regredire. Un’altra guerra qui, a due passi da noi, nel 2022. Non è possibile.
La Nato è più forte della Russia, ma questo non mi interessa e non mi rassicura. Non riesco ad accettare questa realtà perché ho già fatto i conti con l’assurdo e l’ho fatto in prima persona. Ti garantisco che la guerra ha fatto di me veramente una brutta persona e ne ha rese orribili tante altre. Non si torna più indietro”.

Mentre Antonio continua a guardare nel vuoto, sembra entrare in qualche dettaglio e allora lo provoco. Ma poi mi accorgo che la sua voce si stringe insieme ai denti e ad un certo punto si ritrae e mi dice:
“Basta, non posso più andare avanti, certe cose non si possono raccontare. La morte in guerra, gli orrori, la distruzione…ci vuole un po’ di pudore. Il pudore della guerra bisogna rispettarlo. In guerra si assiste alla perdita della dignità, alla fuga disperata, alla fame, alla morte e queste cose non si possono trasmettere o raccontare 24 ore su 24. In questi giorni sto assistendo a un voyerismo mediatico ripugnante, destabilizzante, a una narrativa ridondante di retorica, di storie e di dettagli pieni di propagande. Il pallottoliere dei morti e dei sofferenti fa audience, ma non lo accetto nemmeno nell’era dei social. Ci vuole rispetto.
La questione Russia-Ucraina è complessa, in questo momento bisognerebbe utilizzare i mezzi di comunicazione soprattutto per spiegare alla gente la storia di questo conflitto assurdo, le sue origini, far comprendere gli orrori e la sofferenza in modo più costruttivo, orientato alla formazione di un pensiero critico con basi storiche, politiche, etniche, religiose. Orientarsi in questi momenti di disperazione, di perdita di valori, di uomini, di donne, di anziani e di bambini è un’impresa più grande di noi e ciascuno di noi meriterebbe di essere informato al netto del tifo e dei lanci di titoli. La guerra è una cosa seria, purtroppo, ma qui sembra di assistere a un reality”.

Antonio ha ragione. Non facciamo di tutta l’erba un fascio perché il giornalismo serio esiste, ma mi sento di unirmi a lui in questa riflessione profonda sulla necessità di raccontare la guerra in modo diverso, nella sua complessità e non solo attraverso immagini choc, video di propaganda, retorica, semplificazioni.
Siamo passati dal reality quotidiano del Covid-19 a quello della guerra tra Russia e Ucraina, un bombardamento mediatico offuscante e molto pericoloso.

Antonio si risveglia, il suo sguardo torna presente, si riconnette alla realtà contingente e alla fine mi chiede scusa. E di cosa?
Mi chiede scusa per essere stato poco disponibile a raccontarmi dettagli di quei mesi trascorsi in Kosovo.

Caro Antonio, hai tutta la mia comprensione. Grazie per la tua testimonianza e speriamo che la guerra finisca domani.
Nel caso, sarebbe bello festeggiare, magari organizzando un bel pic-nic stellato, in primavera, sulle sponde del Lago di Como.

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