Grazie a Milano

Un sabato primaverile come tanti altri: una camminata al parco, famiglie a riposo, sportivi alla ricerca della forma perduta, anziani e animali domestici che sfilano tra i viali di alberi fioriti e che teneramente si tengono compagnia a vicenda.

Mentre l’Europa e il resto del mondo continuano a “prodigarsi” per trovare una soluzione utile a far cessare le azioni di guerra in Ucraina, qui la gente continua invece ad arrovellarsi per comprendere le ragioni di un conflitto feroce, insopportabile, anacronistico, di una migrazione forzata dal potenziale inquietante.
Ma di sabato, al parco, a Milano, come sempre, la vita continua.

Nel bel mezzo di un prato leggermente appartato, ad un certo punto, scorgo una scena a me piuttosto familiare: il set di un servizio fotografico di moda.
Da un furgone parcheggiato sul ciglio della strada a ridosso del prato, escono due modelle inseguite da un truccatore e da una stylist che tentano faticosamente di sistemare gli ultimi dettagli dei look e del make up. Prima di scattare, il look deve essere approvato dal fotografo e dalla redattrice di turno, nella speranza che non si verifichino cambi repentini di idee, di location e di umori. La troupe di un servizio di moda non ha certezze, spesso si assiste a scontri di creatività e di ispirazione e la vita dei modelli è una delle più impegnative dal punto di vista della pazienza e della tolleranza. Il loro corpo in quei momenti rappresenta una tavolozza sulla quale si fanno esperimenti di colore, di hairstyling, di abbinamenti, di forme e di azioni e su di loro incombono regolarmente i piccoli grandi battibecchi che avvengono tra gli addetti ai lavori che li dirigono. La loro è una missione di perseveranza che verrà poi ripagata dal vedersi pubblicati in copertina, sulle pagine patinate delle riviste, sui social, ma vi garantisco che vengono proprio messi alla prova.

Mentre li osservo incuriosita nei gesti e mentre catturo qualche parola e qualche informazione in merito al servizio in corso, scorgo un volto inequivocabilmente riconducibile ad un ragazzo dell’Europa dell’Est. Carnagione chiarissima, capelli biondi e sottili, occhi grigio azzurri, corporatura esile e nervosa su una statura piuttosto elevata. È anche lui un modello. Lo hanno vestito da donna, ma questo non mi sorprende perché siamo in pieno trend genderless.

Sono invece colpita dalla postura e dallo sguardo. Cammina intorno alla troupe, appartandosi, mentre aspetta il suo turno. Tiene il capo chinato mentre fuma una sigaretta, le mani in tasca e un atteggiamento completamente diverso da quello dei suoi colleghi.
Non sorride, sembra teso e pensieroso, ma forse fa parte del suo ruolo in questo shooting.

Sono attratta da lui e mi avvicino mentre l’assistente della stylist si agita con la truccatrice per qualcosa che non va sulle due modelle, quindi la troupe è distratta.
Mantenendomi discreta e poco invadente, gli chiedo scusa e gli domando per quale rivista stanno lavorando. Mi risponde subito, senza esitazione e accenna un sorriso amichevole che non mi sarei mai aspettata.
Per rompere il ghiaccio, gli confido di essere una ex modella “in pensione” e lui sembra averlo immaginato. La mia seconda domanda scatta spontanea:
“Di dove sei?”
Peter, così si chiama, mi risponde: “Sono polacco di origine, ma sono cresciuto in Russia perché mio padre si trasferì in Siberia per lavoro. Uno dei miei fratelli maggiori in questo momento si trova in Donbass nelle truppe russe e nessuno di noi familiari ha notizie da settimane. Scusami se ti racconto questo, ma sto male.”
Rimango senza parole. Ascolto le cose che mi dice in un italiano stupefacente e poi lui prosegue con l’outing:
“La moda mi ha salvato, sono grato alla vita per essere qui oggi. Non ho opinioni, non riesco a farmene nemmeno una, anche se mi sforzo. L’unica cosa che ti dico è che se io oggi sono qui e mio fratello è in guerra è solo una questione di “destino”. Quel destino spietato che è toccato a mio fratello e che nemmeno con i cannoni potremo mai governare”.

Mi sento quasi in colpa per averlo disturbato e per averlo indotto a quelle poche, ma intense, parole e riflessioni cariche di angoscia.
Lo ringrazio e lui mi sorride di nuovo, facendomi l’occhiolino e augurandomi una buona giornata come se fosse tornato alla sua realtà.
Poi si accende un’altra sigaretta, torna a chinare il capo con le mani in tasca, in attesa di essere chiamato, e lo sguardo muta di nuovo.

Me ne vado.
Esco dal parco, cerco di non pensare e mi riprometto di non accendere la TV, almeno fino a domani.

Buona domenica.

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