Testamento dell’invisibile

Poesia scelta: Testamento dell’invisibile
Autore: Gianpaolo G. Mastropasqua

perché sei la casa dell’essere
la domanda abitata da tutte le risposte

Figliolo, ora che la clessidra terrestre è stata
capovolta, ora che il tempo divora gli ultimi
grani di voce residui, sebbene non sia stato
un padre esemplare, sebbene non abbia avuto
che un paio di versi come eletti discendenti
prima di ritornare a casa nella mia vera casa
voglio dirti la verità anche se è solo una verità:
ricorda che la realtà è un ponte e una luna
ha una faccia visibile al cuore e l’altra invisibile
agli occhi, ricorda che l’anima e l’inconscio
sono gemelli siamesi, hanno un solo volto
di bimbo millenario che sorride, rammento
ma il primo sorriso distingue il bene dal male,
il secondo si nutre di emozioni e non distingue
alcun male; ricordati che Dio ha molti nomi
come l’io, che l’arte e la scienza sono figlie
della poesia, e non credere a chi crede
che la poesia solo letteratura sia, ricordati
di essere folle, perché solo chi è folle, folle
di sogni, folle d’amore, folle di vita,
non diventerà mai pazzo come il mondo.
Figliolo, quando il sole scomparirà nelle ossa
accendi una candela per me e combatti:
quando la pupilla fisserà pietrificata
il Tibet della fiamma, nel silenzio fulvo
di un minuto, ti unirai gradatamente
all’assemblea delle albe, fino a svegliarti
in un lago nudo che evaporerà
in un grido di giorni in preghiera
e in quel viaggio d’ombra, nervo
e luce, non avrai sete perché sarò lì
ad espirare in te questo tepore
per ispirarti parole mai pronunciate,
sulla nuca dei tempi ti solleverò nutrendoti
con foreste di raggi, foglie di neve,
lì aspetterò galoppando l’inquieto seme
del fuoco, nel timido sibilo esplosivo
tra l’aria e il fulmine, perché lì solo
ho vissuto, ai confini dei venti taglienti,
non ho mai camminato sulla cera molle
non mi sono mai addormentato al centro
di un sorriso, ma sempre tra le onde acute
dei margini, specchiandomi nel buio
di un pennello colorato, impastando
le linee in sillabe minute sulla tela
della parola spirito in via della libertà,
benché il male bussasse ogni notte forte
alla mia porta con sembianze amiche,
nessuno mai ha varcato la soglia di casa,
e mai la lava mi ha mutato in pietra
e mai mi sono sentito a casa.

A cura di Emanuela Sica
Nel semitono di un gioco umbratile, dove la luce stacca il profilo alle ombre e la scenografia appare superba nella sua consistenza evocativa, ecco che si materializza, nelle maglie del tempo, il gomitolo di una vita che, srotolandosi, viene a concludere i suoi giorni negli ultimi pensieri di un padre.
Un uomo, una storia, un interprete di soggettivi momenti esistenziali, custode e curatore anche di quelli destinati a un’altra vita che, lui stesso, ha contribuito a mettere al mondo.
La casa dell’essere, nell’incipit legato ai versi successivi, anche se apparentemente sganciati dalla poesia, diventa tutt’uno con la lirica di Mastropasqua che, con la sapienza di un uomo al termine del suo giro di lancette, alla fine di quello che è, probabilmente, il suo “viaggio salvatico” nella dimensione esistenziale, raggiunge l’apice della maturazione, non semplicemente corporale ma prevalentemente emotiva.
E quella “domanda abitata da tutte le risposte” è la riconoscenza essenziale che si dà all’intelletto, alla mente umana, capace di non fermarsi davanti all’apparenza ma di scavare solchi profondi nella conoscenza. Quasi come se il “dubitare”, il porsi delle domande, voglia dire che si aspira a farsi parte delle cose che ci circondano, senza tralasciare, in alcun modo, l’essenza rispetto all’esteriorità.
Prima di lasciarsi andare nelle braccia della morte, prima di mettere la parola conclusiva al suo passaggio terreno, mentre gli ultimi granelli di sabbia scendono nella clessidra capovolta, che logicamente non potrà mai più ripartire per quella vita, si materializza il momento dei resoconti. La linea che chiude l’operazione della sottrazione o dell’addizione, il bilancio conclusivo di chi comprende che è giunto il momento di lasciare più che parole anche una testimonianza scritta di chi era stato, di chi non si è stati in grado di essere.
Non si discute il lascito, il testamento della memoria, della verità o della follia stessa, si prova a raccontare, nella percezione di chi scrive, con la penna intinta nella dimensione più intima e soggettiva, cosa sia il legato emozionale, quello che non si vede ma esiste come assioma di verità e bellezza, insieme alla totalità di una eredità che non ha denaro contante (o forse lo ha ma non è questo il punto) ma “conta” i momenti della vita, gli affetti, le sensazioni, le percezioni, le velleità, le concretezze e le necessarie idee di aldilà capaci di trasportare il dopo di noi in un mondo inequivocabilmente migliore di quello che stiamo lasciando.
In questo “calcolo” si tolgono gli errori che diventano esempi di insegnamento utili ad evitarne ulteriori in futuro. L’esperienza diventa plastica materia che si lavora per creare calici ricolmi di precetti che hanno il gusto della corposa concretezza mista ad retrogusto, a volte impercettibile e altre volte pastoso, che risale sino alle tempie, come gradazione alcolica, di sofferenza.
La catarsi del poeta, nel padre morente, è un atto d’amore che disegna i tratti più belli di una poesia moderna e romantica al tempo stesso. Il fulcro della necessità è tutto insito nel dono che si lascia in dote a chi resta. Bisogna e si deve mantenere la candela accesa nonostante il buio dei tempi, nonostante le catastrofi del mondo e della cattiveria esplosiva dei tempi.
Si arena sul foglio un’esistenza vita fatta di tanto vissuto e di altrettante assenze, mancanze, come nell’evoluzione dell’uomo, dalla sua genesi primordiale, al vagito di vita, all’ingresso dell’aria nella bocca. E, nella corporalità vibrante di una nuova nascita, fino all’alito finale, quando “il sole scomparirà”, sarà quello il momento a partire dal quale il viaggio diventerà per lui “nell’ombra” e, per chi resta, “nell’assemblea delle albe”, dove è sempre luce la fiamma che alberga a rinvigorire i cuori e le maree sollevano in rifrangenza le ispiranti preghiere che alitano libertà e devozione ai sorrisi.
È la confessione di un padre che ha combattuto le sue battaglie, che ha vinto ed è stato sconfitto, quella che si lascia andare in questi versi, fluidi come il sangue nelle vene di un simulacro etero dinamico e assoluto, fatto di mente e cuore.
Una confidenza privata che determina un elogio che sovrasta il tutto: quello della follia, consapevole che l’io, in commistione necessaria con l’arte, con la poesia, ci permette di “vivere” veramente e di non sopravvivere soltanto.
Si scatena così la fondativa convinzione che non vi debba essere mai la resa alla quotidianità, alla piatta calma di un lago immobile, preferendosi le acque galoppanti, le “onde acute dei margini” e “dell’inquieto” ove il “seme” del “fuoco” crea esplosioni di magnificenza rispetto alla sostanza arida e brulla della “tranquillità”, anche se forse sarebbe più giusto parlare di: “assuefazione al quotidiano scarno e senza pulsioni”, volendo utilizzare un mio concetto alquanto estemporaneo rispetto alla singolare e caustica “noia” che avvolge e capovolge, spesso, l’essere umano.
Per questo, lo spirito che alberga, mai sopito, nei corpi, contrapposto al ritratto del male che oppone il nulla al tutto, diventa simbolicamente un pennello che, imperterrito continua a tracciare colori e “sillabe minute sulla tela” di una storia che ha ancora tanto da dire nonostante le sue ore volgano l’aspirazione al desio di nuova linfa anche se consapevoli di una fine già scritta. Non si arrende, neppure nella traccia testamentaria, la capacità del padre di seminare ancora nel terreno del figlio, ripulendolo delle erbacce che a nulla servono se non a infestarlo di evanescenze. La poesia diventa così un percorso, un viaggio verso qualcosa di più autentico, che si comprende davvero soltanto quando nulla più rimane alla vita che si spegne, se non la consapevolezza dell’oblio. Quell’essere padre, anche dopo la sparizione del corpo, sarà l’eredità invisibile che si lascia al figlio. Una presenza che non si eclissa sotto terra ma, evaporando, diventa aria utile alla sopravvivenza, diventa silenzio che maggiormente si tesse di parole anche dove l’eco ha perso la sua capacità narrativa. È consapevolezza di continuare a rendersi partecipe della vita del figlio anche quando la sua sarà diventata concime.
Le rimembranze dei lasciti diventano principi morali fondativi dell’essere un uomo nuovo. Un uomo che dall’esempio (onori ed errori compresi) del padre trarrà nutrimento per le future (e molto probabili) carenze vitali ed esistenziali: “che la realtà è un ponte e una luna/ ha una faccia visibile al cuore e l’altra invisibile/ agli occhi, ricorda che l’anima e l’inconscio/sono gemelli siamesi, hanno un solo volto/ di bimbo millenario che sorride, rammento/ ma il primo sorriso distingue il bene dal male,/ il secondo si nutre di emozioni e non distingue/ alcun male; ricordati che Dio ha molti nomi /come l’io (…)”
Si delinea così una sorta di medicamento per le avversità, quasi un kit di pronto soccorso per le cadute in cui si potrebbe incappare, un modo per lasciare intravedere, anche nella notte più buia e nell’avversità più potente, una sorta di via di fuga, necessaria evasione per non lasciarsi andare nei momenti di difficoltà.
E’, ancora, un ulteriore elogio alla bellezza della vita, nonostante tutto il marcio che si porta appresso, nonostante le dolorose capienze delle sofferenze, nonostante il cortocircuito delle cattiverie. L’aspirazione sottesa è quella di rendere grazie al dono che si riceve, anche se costellato da elementi disturbanti, che poco ci attraggono verso la felicità e la quiete. È un invito a trovare, anche nella burrasca, l’ancora di salvezza per rendere solida la propria presenza nella società. Per questo, tutte le volte che il male dovesse bussare alla porta con sembianze amiche, quando la forma sarà parzialmente irriconoscibile, si chiede al figlio di non lasciarsi ingannare e di rispedire quei colpi al mittente, con la convinzione che ad ogni ingiuria c’è sempre un premio da ottenere. Ma forse questo testamento dell’invisibile, di quello che non si può toccare con mano ma che costruisce l’uomo rispetto all’animale, servirà anche a rendere anche il trapasso del figlio meno doloroso perché ad aspettarlo si porrà il padre, come da bambino faceva sulla soglia d’ingresso, per rendere quel luogo pauroso, in cui ognuno prima o poi giunge, una casa familiare. Ma questa è solo una mia interpretazione, come del resto tutto ciò che ho, sin qui, messo su carta.

Poesia estratta da “Viaggio salvatico” (Ed. Fallone, Taranto, 2018, prefazione di Giuseppe Conte)

GIANPAOLO G. MASTROPASQUA nasce nel “Sud del Sud dei Santi” – Medico Psichiatra e Maestro di Musica. Ultimi libri pubblicati: Danzas de Amor y Duende (Ed. Enkuadres, Valencia, edizione bilingue, 2016) Viaggio salvatico (Ed. Fallone, 2018, prefazione di Giuseppe Conte, Premio Internazionale Nabokov), Ologramma in La minore – Accordatura orchestrale 432 Hz (Ed. Caosfera, 2019, note di Tomaso Kemeny e Valentina Colonna, Premio Speciale del Presidente delle Giurie Bologna in Lettere). Presente in una trentina di antologie italiane ed estere, nell’Atlante della Poesia Contemporanea “Ossigeno nascente” dell’Università di Bologna, in VIP (Voice of Italian Poetry) dell’Università di Torino e in Poetry Sound Library – Mappa Poetico-sonora della Poesia Mondiale, durante l’Expo di Milano tra i poeti italiani per il “Bombardeo de Poemas sobre Milan” opera del collettivo cileno Casagrande. Ha ideato e co-diretto il Grand Tour Poetico. É uno dei 7 poeti contemporanei italiani protagonisti del film-documentario della regista Donatella Baglivo “Il futuro in una poesia” presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti nazionali ed internazionali.

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