A volte sono

Poesia scelta: A volte sono
Autore: Marco Oldmascio

“a volte sono aria, sospeso

fiato espulso dalla bocca

disperso dentro il niente

a volte sono buccia, scarto

racchiuso in un sacchetto

pronto per essere gettato

a volte sono foglia, stacco

dal ramo, dolcemente

a terra plano

a volte sono un uomo”

A cura di Emanuela Sica

“Le mie poesie nascono nella mia insonnia, a cui sono molto legato. In essa vi è la presa di coscienza di quello che è e che non è l’uomo nella sua leggerezza e “pesantezza” nella continua ricerca di sé.”
Probabilmente la traccia espressiva della poesia che oggi andiamo ad analizzare è tutta nella definizione che lo stesso autore dà alla sua ispirazione artistica, in uno con l’espansione (interiore ed esteriore) di quel magma esistenziale che sente muoversi nell’animo e che dà forma alle parole che vengono, poi, alla luce.
In quella frase “a volte sono”, asciutta e senza costruzione artificiose, vi è lo zenit della più autentica crasi spirituale di Oldmascio che, nella comprensione dell’incomprensibile e del relativismo più profondo, riesce a esplorare tutti i mondi del suo io.
A volte definiti altre indefiniti ma sempre guardati con lo sguardo del disincanto e, al tempo stesso, della comprensione anche quando questi sono case del dolore, abitate per qualche tempo e mai davvero abbandonate. Come se nella sua stessa esistenza la frugalità del tempo e dei momenti non fosse mai un piatto giro di lancette ma avesse sempre e comunque dato significato e predominanza alle emozioni, anche quelle più labili oltreché a quelle più preponderanti. Nulla viene lasciato in disparte o poggiato sulla sedia della dimenticanza ma ogni azione e ogni vissuto crea l’uomo nelle sue molteplici forme, tutte differenti l’una dall’altra, a volte parossisticamente contrapposte tra sogno e realtà, altre volte spigolose scanalature della vita in cui si vorrebbe nuotare, altre guardate con lieto accadere, senza prendere tempo e togliere aria ai giorni.
L’aria, nella sua sospensione dell’afflato e del respiro, come soffio trasparente che entra per dare vita e anche come residuo che esce per buttare fuori il di più, quello che non si deve trattenere perché, in qualche modo, sporco, diventa termine di paragone con l’esistenza stessa di un uomo che muta, prende nutrimento e rilascia scarto, con la stessa velocità del viaggio che compie l’ossigeno nel corpo mortale.
Il niente che prende le porte del suo naso, per poi uscire della bocca, diventa la casa dell’invisibile, di quella temporale vacuità dell’essere umano che spesso si sente una nullità nella dimensione dell’universo, troppo piccolo per modificare il corso degli eventi ma abbastanza grande per fronteggiarli in una guerra che, tuttavia, pur compresa nella sua inutilità, si combatte lo stesso.
Identica similitudine viene fatta con i termini quali “scarto”, “buccia”, “rinchiuso in un sacchetto”. Tutti elementi esteriori di cui si può fare a meno nella pretesa che la materia pregiata, la polpa, o qualcosa che non andrà mai in una pattumiera sono elementi di cui pure è fatto il suo vissuto ma che, nel rapporto col tempo che fluido scorre, non sono più nella stessa posizione di partenza.
La caducità della vita, pur nell’accezione negativa del termine, permane nella traccia poetica, si riesce quasi a vederlo, l’uomo, che percorre il tempo sul filo teso dei giorni, facendo dell’equilibrio una virtù di sopravvivenza e che, allo stesso tempo, ricerca la stasi, il porto calmo in cui disfarsi dei pesi esistenziali e lasciar riposare l’anima al calmo barlume della nostalgia e dell’incanto.
Si apre, a questo punto, la metempsicosi con la natura, nella sua delicata consistenza di foglia, che appartiene al ramo per un lasso di tempo, giusto quello di venire al mondo. In questa immagine vi è la certezza che nulla è fisso nella sua dimensione, ma ogni cosa si muove con la stessa eleganza di quel “pezzetto di natura” che prima è padrona della fermezza e, subito dopo, viene lasciata in balia del vento, nel distacco dalla sua ancora di salvataggio, dal suo mondo primordiale.
Nel breve lustro di quella stessa “vita” eletta al ramo e all’albero, alla concretezza di un mondo che affonda le sue radici, saldamente, nel terreno fertile, si riesce anche ad essere “uomo”.
Albero come fonte di vita da cui consapevolmente siamo costretti a staccarci, rispettivamente madre e padre, un tutt’uno fatto di corteccia e linfa che al suo interno supera l’apparente staticità del tronco.
Pur se l’alchimia che accompagna i versi sembra propendere per il pessimismo la simbologia della “foglia” ci dice altro. Vediamo perché. Essa simboleggia la crescita, la fertilità e il rinnovamento, basta pensare a come in primavera gli alberi srotolano le foglioline verdi, come in estate si mostrino grandi e forti e come in autunno si richiudano su di sé diseccandosi per poi cadere, un ciclo vitale che assomiglia molto alle fasi della vita di un essere umano, nasce piccolo e delicato, cresce forte e robusto, invecchia riempiendosi di rughe e poi muore. Non da ultimo, nella storia i grandi imperatori, i grandi letterati e gli esponenti più di rilievo della società hanno sempre indossato corone di foglie per simboleggiare la vicinanza alla divinità e la vittoria [ancora oggi i laureandi hanno il capo cinto da una corona di alloro a simboleggiare la loro riuscita]. Ed ancora in Cina poi il simbolismo della foglia prende un posto molto importante nell’Albero Cosmico, dove ogni foglia di questo albero rappresenta ogni essere dell’Universo.
Allora come valutare quest’ultimo verso nel contesto dell’ispirazione poetica? Io mi lascerei prendere per mano dall’uomo che, alla fine della lirica, compare a definire la ricerca dell’autore, nel suo essere pirandelliano, direi, uno, nessuno e centomila per giungere in questa multifocale ottica ad essere pienamente una persona, nell’accezione terminologica di uomo con un costrutto emotivo, emozionale, culturale, filosofico. Uomo anche aperto alle variegate stagioni della vita, nell’accettazione più vera che nella diversità del proprio io, nelle mille sfaccettature dell’essere, si ricompone il puzzle della vita per diventare storia e parlare di quello che si è stati alle future generazioni. Anche perché “uno” è l’immagine che ogni individuo ha di sé, “nessuno” rappresenta tutto quello che il protagonista sceglie di essere (per Pirandello ma credo anche per Marco) e “centomila” ritrae, chiaramente, l’immagine che gli altri hanno di noi.
Probabilmente anche questa poesia, come l’opera Pirandelliana, compie un’indagine sulla libertà, un’indagine di natura fondamentalmente psicologica, che si risolve con la demolizione della gabbia dell’uomo stesso, con la distruzione di ogni sua fissa e anche positiva identità, attraverso una specifica operazione [descritta puntualmente nel romanzo del 1925] di “decostruzione della temporalità della coscienza e la perdita volontaria della memoria.”
Proprio per questo, qui si passa dall’aria, intoccabile e trasparente, allo scarto per la pattumiera, di cui molto volentieri ci si vuole disfare, alla foglia nell’accezione di nascita e rinascita evolutiva e, si finisce, nella materia più importante e, allo stesso tempo, più immateriale possibile, perché fatta anche di anima e cuore: l’uomo. Per questo, probabilmente, il poeta non ci dice che tipo di foglia è. Da questa mancata precisazione si rende evidente che l’eterogeneità dei mutamenti e dell’umano viene sentito e conosciuto, altresì preso in carico, dall’animo di chi scrive come energetico balsamo, elegiaco d’esistenza.
Come qualcosa che cura e mette al mondo l’essere, anche nelle mille trappole della vita, mutevole, non prefabbricato nelle convezioni o nelle concezioni antiche e moderne, capace di trasformarsi e, altresì, adattarsi alle vicende terrene con una camaleontica capacità, cosicché nella “mancanza di sonno”, anche detta insonnia, si muove la vicenda umana di quel “quid pluris” che si analizza unitamente alle ombre e alle luci che lo accompagnano nelle ore del giorno ma soprattutto della notte.
In questa poesia si percepisce un processo di de-personalizzazione, o de-realizzazione, un sentimento invincibile di irrealtà riferita sia a se stessi che al mondo esterno, che causa l’inizio della trasformazione psichica in direzione della libertà (possibile). E quale libertà si prefigura se non quella della foglia portata dal vento? Capace di muoversi in ogni direzione ma anche semplicemente di planare sul terreno, arrestando così la sua esperienza di vita? Per tale motivo il tentativo di liberazione ha il suo primo e fondamentale presupposto nella necessità di far corrispondere la libertà con l’abbattimento delle difese personali, di tutti quei meccanismi psicologici che, seppure garantiscono una necessaria ed adattativa protezione, impediscono all’uomo di liberarsi veramente, di essere davvero quel che si è e non una maschera per la società.

Marco Masciovecchio, ovvero Marco Oldmascio in ambito poetico, è un impiegato e vive a Roma. Ha due passioni la fotografia e la poesia; ha partecipato a mostre fotografiche collettive e concorsi nazionali e internazionali; nella poesia è in attesa della sua prima pubblicazione. È conosciuto nel web, in ambito fotografico come Redart Photographer.

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