Conterò i giorni

Poesia scelta: Conterò i giorni
Autore: Gil Ferando

Conterò i giorni
al silenzio che assale
questo tempo di attesa
che addolora le mani.

Tra noi vi è stato qualcosa
simile alla grazia
che ancora abita la tua carne
il tuo volto. Si fa tardi il mondo

per questo mio cuore di carta
fragile alle dita, ai tagli improvvisi
alla scrittura dei ripensamenti.

Avrei voluto per noi un altro destino
il ritorno a un’alba di luce
dopo il lungo esilio delle lingue
su altri discorsi di mute parole.

Ma le ore felici non hanno pietà,
costruiscono muri di silenzi
per tenere lontano ogni dolore.


A cura di
Emanuela Sica

“L’amore si dispiega in un infinito d’incontri senza storia, eppure reali come ogni storia.” È questo il tracciato emotivo in cui prende forma la poesia, ed è lo stesso autore a dircelo. La dimensione della lirica tuttavia è quella più intima ed esistenziale di un uomo che si trova, nella curva di un amore ormai concluso, a contare i giorni di un’attesa che, probabilmente, non avrà mai fine. L’aspettativa inconsapevole che preme sul cuore e sulle mani del tempo così come una mancanza severa taglia in due il momento dell’esserci con il non esserci. Eppure, nell’assoluto concetto di amore, che in questa lirica trae nutrimento da ogni singola parola, non di certo scelta a caso ma lasciata fluire dalla fonte affettiva e immediata dell’ispirazione e del cantico dell’innamoramento, si intravede un elemento prevalente, che emerge dal magma interiore, che non dipana sentieri fatti di carne ma “qualcosa simile alla grazia” che pur abita il corpo e lo rende più vicino ad una eclettica concezione spirituale come se ogni percezione simbolica fosse derivazione di quell’amore così importante e così cocente che rende fragile anche la scrittura che ne deriva. Quello che viene alla luce è una presunta incapacità, dell’introspezione poetica, di rendere appieno il tenore e la consistenza di quell’amore, che rende anche un cuore fatto di parca materia, molto simile alla carta e poco paragonabile al muscolo vitale da cui traiamo energia, nutrimento, afflato emotivo e in una parola la vita stessa. Nella mente dell’autore aleggia una paura fatta prevalentemente di “incomunicabilità”. Si sente quasi incapace di esprimere il vero senso di quell’amore. Tuttavia, per fortuna di chi legge, rimane ancorata solo nella mente del poeta che, invero, lo rende chiaro e pregnante nella sua forza espressiva per farci partecipi, in prima persona, di un sentimento così intenso quanto coinvolgente.
Per forza di cose nella poesia c’è una narrazione del rapporto declinato al passato, quel “tra noi vi è stato” (e non c’è più) si muove di riflesso muto al verbo che s’accompagna al successivo verso “avrei voluto per noi un altro destino” (che non vi è stato). Questi collegamenti ci danno modo di giungere ad una cristallizzante e immutabile certezza: ciò che non ha permesso l’unione di due mondi, pur destinati a incontrarsi sempre per la stessa mano, è stato il gioco crudele del fato. Un uomo e una donna allontanati da forze sconosciute e severe, posti nella condizione di non viversi più, di non essere quello che in cuor e in animo avevano in mente di essere. Volge al desio, alle ore più buie della notte, quel sofferto rapporto che non è più unità, che non è più “noi” ma è divenuto soggettività distante dove le anime, di chi si è appartenuto per un breve lasso di tempo, si muovono fluide e sinuose, danzando su note di grande rassegnazione, di tristezza indefinita eppure cariche di rispetto e riconoscenza per quello che si è vissuto.
La lirica di Ferando porta con sé una sorta di elegia, ricondotta all’attualità carica e di smarrimento consapevole, del tempo dell’amore, nelle sue molteplici e variegate sembianze, che si allunga a tessere una storia e un percorso che poi, per un caso, ha avuto fine. Nonostante tutto, però, le maglie di quel legame sono ancora strette a tal punto da sembrare quasi inverosimile l’allontanamento dai luoghi in cui quell’amore aveva un perimetro evidente eppure infinito di bellezza e desiderio insieme. Preme il necessario riallaccio delle lingue, oramai destinate all’esilio, a percepire e assaporare, di nuovo, il gusto dell’altro, nei baci manchevoli di sostanza, solo e semplicemente anelati, desiderati, ma impossibili da mettere a frutto nell’incredulità di chi scrive, ripiegato sul margine di un dolore che pulsa e crea scompiglio nella sua esistenza.
Neanche parlarsi è possibile. Quando un rapporto finisce il distacco è sia corporale che verbale. Le mani non si tengono più, il fisico attua l’allontanamento materiale, l’olfatto perde la cognizione dell’odore altrui, la bocca il sapore dell’altra, gli occhi perdono la visuale dell’altro, finanche l’udito è destinato a vivere il silenzio nell’assenza di parole, nella chiusa di una fonte che prima dava energia al ruscello ed ora è diventata diga che argina momenti e storie destinate a dimenticarsi? Non è dato sapere se vi sarà mai una vera e propria arresa al disegno dei numi, a quello che non era nei progetti di una qualche divinità che, pur nella sua assenza terminologica, appare aleggiare in quasi ogni singola costruzione poetica, come quel deus ex machina (divinità che scende da una macchina, quest’ultima intesa come marchingegno) che, nel teatro antico, rappresentava la divinità scesa a sorpresa dall’alto mediante un meccanismo per sciogliere l’intreccio critico della trama, altrimenti non risolvibile dai protagonisti umani sulla scena. Anche perché almeno in uno dei due il pensiero volge a desiderare un ricongiungimento affettivo. Tuttavia, la chiusa stessa è una recrudescenza del dolore, di quelle ore felici che, in rimembranza, non hanno pietà di quello che oggi si soffre in due a distanza. Eppure la scrittura si potrebbe innestare di “ripensamenti”, le vite potrebbero ritornare nella dimensione originale, quella in cui i sentimenti erano condivisione di emozioni e non distacchi senza senso. Siamo capaci di mutare il destino che ci viene concesso? O siamo burattini in balia degli eventi? Probabilmente l’autore si lascia andare alla consapevolezza negativa “dell’arrendevolezza” che costruisce muri piuttosto che aprire porte per permettere l’ingresso di quel tempo “felice ma passato” nella sua, ormai, solitaria esistenza.
Eppure il Dalai Lama diceva, a proposito del destino: “Nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo” e Stephen Hawking aggiungeva “Einstein sbagliò quando disse: “Dio non gioca a dadi”. La considerazione dei buchi neri suggerisce infatti non solo che Dio gioca a dadi, ma che a volte ci confonda gettandoli dove non li si può vedere”. Con questo mi piace lasciare aperta la porta al mutamento…anche di situazioni apparentemente irreversibili, basta solo impegnarsi a “guardare” nella giusta direzione perché “il nostro destino viene formato dai nostri pensieri e dalle nostre azioni. Non possiamo cambiare il vento ma possiamo orientare le vele.”

Gil Ferando Romano sessantenne, si definisce mendicante di bellezza, clochard della parola poetica, pio lettore praticante; devoto ai libri, propri compagni di strada.

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